“Acque sporche” di Hossein Taheri e Paolo Zuccari anche interpreti, regia del secondo. In scena al teatro Sala Uno di Roma

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Una necessaria necessità

Liberamente tratto dal dramma di Ibsen Un nemico del popolo e scritto a quattro mani da Hossein Taheri, anche interprete, e Paolo Zuccari (interprete e regista), Acque sporche in scena alla Sala Uno di Roma incomincia come una fiction televisiva. Ha l’aria del prodotto tv italiano di seconda qualità, genera quella particolare sensazione di falso per come si muovono gli attori, per come parlano e si dispongono in scena. Deve essere uno scherzoso trucchetto della regia per stupire vieppiù quando lo spettacolo incomincia a funzionare e tutto assume ritmo e agilità. Ma la sorpresa vera sta nell’abilità del regista che riesce a incastrare simultaneamente tutta una serie di piani diversi – la scena, la televisione, internet – utilizzando al meglio la tecnologia a fini teatrali. A un certo punto si svolgono quattro azioni contemporaneamente su due luoghi deputati e due schermi ed invece di finire nella palude di un pericoloso disordine, Zuccari riesce a organizzare tutto questo ambaradan con chiarezza e fluidità. Tutti in scena sanno quello che devono fare e lo fanno senza sbavature, malgrado i tempi e gli incastri difficili da rispettare, al punto che la macchina teatrale messa in moto dalla regia diventa interessante quanto le vicende raccontate.
Un medico scopre, dopo una accurata perizia, che le nuove terme pubbliche che si stanno per inaugurare e che porteranno lavoro e turismo sono inquinate dagli scarichi di un’industria. Vuole denunciare immediatamente il disastro ambientale ma ad opporsi con ogni mezzo lecito e illecito è suo fratello, sindaco della cittadina e rappresentante degli azionisti di maggioranza dell’impresa termale. E fin qui si sta sulla falsariga del dramma ibseniano, dove i giornalisti del quotidiano locale sono sostituiti da quelli di una televisione. Quello che cambia è la modernità. Questo spettacolo è un buon esempio di come si può prendere un testo del passato e attualizzarlo restando comunque fedeli allo spirito dell’originale. E anzi confermando la validità di Un nemico del popolo, la sua adattabilità all’oggi, perché l’analisi di Ibsen dei comportamenti e delle motivazioni umane è universale e resiste al tempo.
Il tema tratta del sempiterno scontro fra il bene della collettività e l’interesse privato, e in questo caso più specificamente del conflitto fra salute e lavoro,  quindi Taheri e Zuccari hanno costruito uno spettacolo politico nel segno di un teatro che si rivolge alla polis e le fa da specchio. È il teatro come necessità del discorso. La necessità è necessaria, rappresenta il senso stesso del fare teatro ed è indipendente dalle scelte estetiche e poetiche che sono un ambito di assoluta libertà degli artisti e non possono essere respinte, ma soltanto verificate nella coerenza operativa della messinscena, altrimenti si scadrebbe in un’orrendamente borghese valutazione di gusto. L’urgenza di rivolgere alla polis un discorso morale, e non moralistico, è il catalizzatore di tutti gli elementi che compongono uno spettacolo che così vola, malgrado l’inizio stentato. Un attore recita meglio non solo se possiede tecnica e si è impegnato durante le prove, ma se sa cosa dice, se individua il significato profondo della parola a lui affidata e ne riconosce la natura di servizio alla comunità. Per questo gli interpreti sono tutti bravi, perché a questo punto non ha più molta importanza se qualcuno si rivela più o meno capace: vero che la forma è sostanza ma la sostanza è forma. Assieme a Taheri e Zuccari, in scena Elodie Treccani, Raffaele Gangale, Dario Iubatti, Chiara Scalise e Francesca Ceci.

Marcantonio Lucidi,
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