“The container” di Clare Bayley, regia di Carlo Emilio Lerici. Al teatro Belli di Roma

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Un carico di disperanza

The container di Clare Bayley è un allestimento come se ne vedono al Fringe festival di Edimburgo e che si può classificare per ciò che non è: non è uno spettacolo tradizionale. Si svolge in un container nel quale prendono posto gli attori e al massimo venticinque spettatori. Il regista Carlo Emilio Lerici lo voleva montare per strada, davanti al teatro Belli, poi siccome a Roma qualsiasi idea viene tritata dalla burocrazia, salvo presentare il modulo C. G. D, Certificazione Garantita di Degrado, per il banchetto degli occhiali da sole fatti in Cina e la bigiotteria in latta da pomodori pelati, il container è stato allestito in platea.
I sei interpreti sono tutti stranieri e di mestiere fanno gli attori: un egiziano, un tunisino, una congolese, un’italo-marocchina, una russo-marocchina e un iraniano scappato sette anni fa dal suo paese che ha realmente viaggiato in un container per arrivare in Italia. “Reale” è la parola – chiave dello spettacolo. Si tratta di far vivere agli spettatori l’esperienza della rotta balcanica, di mostrare loro cosa effettivamente può succedere dentro un parallelepipedo in metallo che attraversa le frontiere su un camion con un carico di clandestini alla mercé di Saied il trafficante, uomini e donne diretti verso un’ipotetica vita migliore in Inghilterra.
La drammaturgia non dice nulla di nuovo rispetto alle cronache giornalistiche, le storie sono sempre le stesse: Mariam è fuggita dall’Afghanistan dopo la decapitazione del marito da parte dei talebani; afghano è anche Ahmad, ricco uomo d’affari; Jemal è un curdo che vuole riunirsi alla famiglia già migrata; Asha e Fatima sono scappate da un campo profughi in Africa. Umanità dolente però poco solidale, il trafficante sa come sfruttare le divisioni e gli interessi confliggenti, il che sta a dire che gli uomini alla fin fine sono sempre uguali, lasciate ogni speranza o voi che entrate all’hotel Excelsior o dentro un container. In una semi-oscurità bluastra e alla luce delle torce usate dagli attori, i sei personaggi viaggiano verso il piccolo orribile dramma di una delle ragazze che viene scaricata dal container e stuprata perché non può più pagare Saied che all’improvviso chiede altri soldi per portarli a destinazione. E qui sta il punto: obbiettivo dello spettacolo è di immergere il pubblico in una situazione sconvolgente, inumana, attraverso l’abbattimento della quarta parete e l’annullamento della distanza fra attori e spettatori, questi ultimi seduti in fila sui due lati lunghi del container. Però poi Lerici incarcera quasi tutto lo spettacolo in fondo, su uno dei lati corti e solo ogni tanto fa evolvere gli attori lungo il corridoio, organizzando anche alcune controscene sul lato opposto, vicino all’ingresso. Il risultato però alla fine è imperfetto: la regia ripristina in buona sostanza la quarta parete salvo che per i fortunati spettatori che si trovano vicino all’azione, mentre tutti gli altri sono costretti a chinarsi e torcersi per poter osservare. Inoltre ogni tanto s’avvia il rumore del motore e si capisce che il vero generatore di angoscia è quel suono, se solo fosse continuo, magari anche smorzato. Invece il motore è per la maggior parte del tempo spento. Uno spettatore di una replica precedente a quella di cui si dà conto ha confermato che invece il rumore era presente e assillante durante tutta la rappresentazione. Questo in effetti dovrebbe essere un elemento centrale dell’effetto di pericolo e di viaggio infernale che uno spettacolo così realista vorrebbe produrre. Poi naturalmente c’è sempre chi direbbe che un motore di camion sempre acceso durante uno spettacolo potrebbe risultare insopportabile ma esistono dei casi in cui la coerenza stilistica appare necessaria.
Quanto agli attori, alcuni hanno dimestichezza con la lingua ma altri non sanno l’italiano e hanno fatto lo sforzo enorme di mandare lo stesso la parte a memoria. Fatica encomiabile a cui si deve rendere onore. L’abilità della regia è consistita nel rendere comunque omogenea stilisticamente e interpretativamente la formazione. E questo non è poco.

Marcantonio Lucidi,
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