“Amore”, testo di Spiro Scimone e regia di Francesco Sframeli anche interpreti assieme a Gianluca Cesale e Giulia Weber. All’India di Roma

amore

Addormentarsi sopra la morte

Due tombe grandi come letti matrimoniali. Su una di queste sta seduta una coppia di anziani coniugi. La vecchietta chiacchiera con il vecchietto chiamandolo ripetutamente amore: “Amore, hai il pannolone bagnato? Ti cambio il pannolone amore. Amore, mi piace cambiarti il pannolone”. Dopo un po’ la parola non ha più senso, è soltanto un tic linguistico, la si potrebbe sostituire con qualsiasi altro termine, sedia, bottiglia, pentola. Pentola, dammi un bacio, perchè non mi dai un bacio, pentola?, perché ho le labbra troppo vecchie, pentola.
Si intitola Amore lo spettacolo che Spiro Scimone e Francesco Sframeli, il primo autore, il secondo regista e tutt’e due interpreti assieme a Gianluca Cesale e Giulia Weber, hanno portato all’India di Roma. La seconda coppia, destinata all’altra tomba, è formata da un pompiere e dal suo comandante rannicchiato dentro un carrello di supermercato provvisto di sirena e lampeggiante che il primo porta in giro per il palcoscenico. Omosessuali evidentemente – da giovani si nascondevano nell’autobotte – ma non ha nessuna importanza come nessuna ne ha che i vecchietti siano eterosessuali. Si ama chi si può e come si può. Tuttavia Amore non è uno spettacolo sull’amore. E quando le due coppie si adageranno sulle rispettive tombe, con un lenzuolo bianco addosso, si capisce che non è uno spettacolo sulla morte. È uno spettacolo sull’amare e sul morire. Che è leggermente, profondamente diverso. Perché amore e morte sono statici, amare e morire dinamici. Paradosso: un teatro immobile che racconta un movimento. Eccellente. Tristissimo e molto divertente. Quello che conta è il camminare, l’arrivare è una conseguenza possibile e del tutto irrilevante. Le due coppie camminano nel loro passato, che è lì, presente. Il viaggio e la fine del viaggio sono la stessa cosa. Non si è che ciò che si è stati. Forse i quattro personaggi sono giunti al loro ultimo giorno di vita, eppure sono piuttosto vitali. La vita è una condizione dell’esistere, non il contrario. Addormentarsi su una lapide è una dichiarazione di gioia. Di gioia, non di felicità, che non esiste. Dunque per spiegare Scimone e Sframeli non si deve ricorrere al Teatro dell’Assurdo, a Beckett, a Ionesco, a Pinter. Soltanto a Scimone e Sframeli. Stasera il teatro è la loro filosofia in azione.
La vecchietta continua a ripetere ossessivamente la parola: amore, mi piacerebbe tanto lavare insieme le nostre due dentiere. E vuole fare l’amore. Ma il vecchietto non può più. In fondo è sempre colpa dei maschi. La preoccupazione principale del comandante invece è di spegnere l’incendio. Esorta il suo sottoposto a non stargli troppo accanto, a non esagerare con le attenzioni. Nella prima coppia la vecchietta, la donna, accende, è complice della vita; nella seconda il comandante, l’uomo, spegne, è complice della morte. Il vecchietto e il secondo pompiere sono i loro riflessi e i loro poli opposti perché nulla è possibile senza l’altro. Nelle due coppie c’è molta cura e molta sopportazione dell’altro. La cura, anche un po’ asfissiante, non è un dovere ma un diritto, di chi dà e di chi riceve, anzi un automatismo, è l’unica cosa che resta al termine di tutto. Prima di sdraiarsi sulla tomba e spegnere la luce.

Marcantonio Lucidi,
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