“Romeo e Giulietta” di Shakespeare, regia di Gigi Proietti, con Matteo Vignati, Mimosa Campironi e Alessandro Averone. Al Globe di Roma

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La comicità del tragico

Gigi Proietti regista del Romeo e Giulietta in scena al Globe di Roma individua il punto in cui cambiare il ritmo, il tono, l’ambientazione, i costumi dello spettacolo nella scena del ballo, la quinta del primo atto. Fino a quel momento le due bande giovanili di parte Capuleti o Montecchi sembrano gruppi ultrà da stadio, sono ragazzi dei tempi nostri e Romeo porta una giacca, una cravatta stretta da belloccio sportivo-chic e le scarpe da ginnastica. Un’atmosfera alla West Side Story che si conclude al ballo sull’hit dei Buggles Video killed the radio star. Poi comincia un altro spettacolo ambientato in un medioevo sui generis che andrà avanti fino all’ultima scena quando, di  fronte ai corpi morti di Giulietta, Romeo e del conte Paride, arriveranno tutti gli altri personaggi vestiti alla maniera di oggi.
Ma nel testo di Shakespeare laddove tutto cambia e si avvia il meccanismo della tragedia è nella prima scena del terzo atto, alla morte di Mercuzio che rappresenta il centro matematico del dramma e in cui si opera una sorta di spartiacque linguistico. Con Mercuzio scompare quel linguaggio di mezzo fra la schietta volgarità plebea così ben restituita dalla Nutrice e quelle figure retoriche dell’eros cortese che il personaggio con la sua ribalderia cortigiana si è adoperato a smontare fino a quel momento. La novità e l’originalità di Romeo e Giulietta stanno proprio nella costruzione dei personaggi attraverso il linguaggio, operazione di cui la traduzione di Angelo Dallagiacoma tiene conto. Nell’allestimento di Proietti questo aspetto fondamentale del dramma sembra presente come per caso, pare che stia là perché ce l’ha messo il traduttore. Il regista preferisce esaltare l’aspetto comico in modo da rendere più popolare un dramma che invece trova la sua perfetta strategia di comunicazione proprio nell’equilibrio fra linguaggio alto e linguaggio basso, fra i doppi sensi e le battute salaci da una parte e dall’altra un discorso poetico che contiene la tragedia e porta inesorabilmente alla catastrofe. Il testo di per sé parla a tutti, sia nel senso verticale delle classi sociali e generazionali che in quello orizzontale della sensibilità e dell’emozionalità dei singoli spettatori. La scelta del regista di alternare due epoche è probabilmente dovuta al suo istinto teatrale che sente la necessità di rimediare all’eliminazione delle opportunità offerte dal dispositivo linguistico di Shakespeare e dai suoi raffinati dosaggi verbali, sostituendole con uno slittamento temporale che poi però lo spettacolo non ha la curiosità di indagare a fondo. Sicché il nuovo ritmo così ricercato non si realizza, la prova degli interpreti cade in uno standard recitativo molto comune improntato al “come si deve fare correttamente la tragedia”, con toni gravi e ispirati quando si sta parlando di cose serie, simpatici e ammiccanti per indicare le facezie. Bisogna andare a leggere nelle note di regia le ragioni di queste scelte proprio perché non si rivelano nello spettacolo: “E se fosse proprio l’amore la chiave che apre le porte del tempo proiettandoci nell’eterna favola dei due innamorati? – si domanda Proietti – Da qui sono partito per decidere di collocare la prima parte ai nostri giorni. La festa è un ballo in maschera, che dopo il primo sguardo e la fatidica scintilla si trasforma in un sogno di epoche lontane”. Ma il ritorno alla contemporaneità dell’ultima scena non basta a manifestare l’idea del sogno e pare piuttosto una giustificazione alle scelte effettuate, e non più perseguite, nella parte iniziale del primo atto.
Sullo standard recitativo della tragedia fatta come si deve fare cade la Giulietta di Mimosa Campironi e molto meno il Romeo di Matteo Vignati. Lei che possiede il physique du rôle, è giustamente acerba (il personaggio ha quattordici anni) ma acerba è anche la sua prova perché recita invece di interpretare: non pare avere una sua idea di Giulietta ma è una Giulietta senza originalità, governata da un input convenzionale di innamorata quando deve fare l’innamorata e di disperata quando deve fare la disperata. Finisce quindi per sostituire l’emozione con la retorica e pone ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, il gran problema di questo ruolo che chiede attrici molto giovani e al contempo esperte. Difficoltà non facile da superare. Vignati invece riesce a costruire un suo Romeo con una certa personalità, seppur ancora troppo flebile e indefinita. Ma si intuisce che l’interprete si è posto la questione e s’è messo in cerca di una strada. Si mostra duttile, capace di più registri interpretativi anche se sta nella tecnica e non nella naturalezza fluida che deve portare Romeo alla tomba perché questo è il fiume della tragedia e non si può fare nulla se non rimanere fedeli a se stessi persino nell’annaspo.
Martino Duane è un solido padre Capuleti, abile nei passaggi dal comico al tragico, con un suo lato sornione, quasi distaccato, che ne guida la prova con sicurezza anche in un paio di momenti non facili interpretativamente. Tutta d’un pezzo la Nutrice di Francesca Ciocchetti, la quale toglie ogni sottigliezza al personaggio rendendolo un po’ grosso, un po’ rustico. La Nutrice è figura più interessante e articolata di come l’attrice la costruisce sotto la guida della regia, però quello che Ciocchetti fa lo fa correttamente. Frate Lorenzo è Gianluigi Fogacci che, come nel caso di Duane, lascia intuire d’avere molto più arco interpretativo a sua disposizione ma evidentemente Proietti cerca un’unitarietà stilistica che è corretto rispettare. Poi c’è il Mercuzio di Alessandro Averone e qui si sta su un altro piano: attore interpretativamente elegante e vitale, tecnico e spontaneo, di personalità e comunque responsabile di fronte alla regia, di forte presenza scenica ma non invasivo, Averone illumina lo spettacolo fino alla morte di Mercuzio. Poi si sente la sua mancanza. Si potrebbe chiedere a Shakespeare di allungargli la parte. In scena fra gli altri anche Diego Facciotti (Paride), Roberto Mantovani (padre Montecchi), Matteo Milani (Tebaldo), Loredana Piedimonte (Madonna Capuleti), Guglielmo Poggi (Benvolio), Raffaele Proietti (Principe di Verona).

Marcantonio Lucidi,
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