“Al giardino ancora non l’ho detto”, drammaturgia e regia di Valeria Patera, con Maria Paiato

Nel corpo del giardino

Una voce e un violoncello per il nulla

“La libertà è un ingrediente indispensabile alla vita”, oppure “Il mondo mi appare pieno di meraviglia” e, nel novero delle importantissime proposizioni offerte dal testo, ecco un altro paio di considerazioni filosofiche che la giardiniera protagonista dello spettacolo offre: “Il giardino è un’immagine miniaturizzata del creato”; “Il giardino non è più la preoccupazione principale e diventa il teatro dell’esistenza”. Non è più la preoccupazione principale perché la signora monologante in questione ha una grave patologia che le sta immobilizzando il corpo. Sarà la Sla? La malata non lo dice. Deve essere il nuovo politically correct: prima si era muti, poi non parlanti e adesso non se ne parla proprio.
Questo distillato di luoghi comuni sulla vita, la morte, la sofferenza intitolato Al giardino ancora non l’ho detto è andato in scena ai Giardini della Filarmonica di Roma per la rassegna “I solisti del teatro”. Tratta dall’omonimo libro di Pia Pera, la drammaturgia di Valeria Patera, anche regista di uno spettacolo senza regia, è restituita da Maria Paiato che qui è un’interprete senza interpretazione. Il personaggio va verso la propria fine con la stessa aria giuliva con cui si sale in limousine per andare a una festa a corte. Vero che la bellezza e la gioia della vita si possono scoprire proprio durante il naufragio nella disgrazia, ma questo è tema per grandi drammaturghi. Qui invece anche l’albicocco sta male – viene chiarito a varie riprese – ed è afflitto da gommosi, malattia dovuta alla degenerazione di cellule del legno. Ah, le analogie alte, gli inediti parallelismi, l’uomo e la pianta uniti nello stesso fatal destino.
La Paiato si limita per un’ora e mezza a leggere il testo. Un’attrice dovrebbe come minimo sforzarsi di fare la memoria, però è vero che questo scritto non è drammaturgia derivata da letteratura: è anch’esso letteratura che uno spettatore potrebbe tranquillamente leggersi a casa, nel letto, prima di addormentarsi, se avesse subìto la malasorte di vedersi rubata tutta la biblioteca e d’avere a disposizione solo questa roba. Tuttavia un’artista considerata a ragione molto brava dovrebbe evitare di vulnerare la propria fama leggendo male, inciampando sulle parole almeno quattro volte, esitando in numerose altre, perché qui non si finisce su questioni d’arte ma su bassi errori tecnici. Un’attrice che incespica nella lettura è come una cantante che stona o un cavallo che sfascia una barriera a Piazza di Siena. La Paiato usa il microfono in modo desolante e anche bizzarro perché in genere è sulle consonanti, per esempio la “p” e la “t”, che si rischia di “sparare”, come si dice in gergo, e invece lei spara soprattutto con la vocale “a”. Sicché per gli organizzatori della rassegna è una gran fortuna che lo spettacolo non prevedesse una risata della Paiato, altrimenti dai palazzi vicini avrebbero chiamato i carabinieri per la paura di un’invasione di spettri. Non ci si capacita inoltre di questa lettura monocorde di un’attrice così celebrata, una litania da prefica durante il Calvario, soprattutto nel lungo finale, lungo perché non essendo teatro non si sa dove cominci e lo spettatore da lontano sbircia speranzoso i fogli per calcolare di quanto si sono ridotti ed intuire più o meno il momento in cui finalmente si sta entrando nell’epilogo. Che naturalmente non c’è, perché il testo è privo di ritmo narrativo, tutto un blocco di piombo, come si diceva una volta nelle vecchie tipografie dei giornali. Neanche viene il sospetto che l’autrice in sede di regia abbia tentato di ovviare a questa piatta linea dritta del suo adattamento con un po’ di movimento. Però ha chiamato una violoncellista (Giovanna Famulari) a suonare di tanto in tanto. C’è ancora gente in giro che crede che sia bastevole fare un po’ di musica a spezzettare il monologo per regalare allo spettatore, questo utile sprovveduto, le impagabili delizie dell’azione scenica.
Non è giusto in fondo infierire su questo spettacolo, come hanno fatto alcuni presenti in platea. Si diceva in tempi andati nelle redazioni, quando i quotidiani avevano dei servizi di critica teatrale, che non è carino sparare sulla Croce rossa.

Marcantonio Lucidi,
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