“La lunga vita di Marianna Ucrìa” dal romanzo di Dacia Maraini, con Raffaella Azim diretta da Daniela Ardini. Ai Giardini della Filarmonica di Roma
Pericolo di donna nella Sicilia immobile
Interprete solista nella trasposizione teatrale del fortunato romanzo di Dacia Maraini La lunga vita di Marianna Ucrìa, Raffaella Azim è un’attrice che fa della tecnica recitativa il centro della propria prova. In lei sono la concentrazione e la tensione del controllo che condensano lo spettacolo e lo restituiscono compatto e duttile nei vari passaggi di questo monologo d’una Marianna di volta in volta bambina, giovinetta, adulta. Azim si dimostra qui un’interprete all’italiana di stampo antinaturalistico: non è il personaggio che guida l’attrice ma è l’attrice che governa il personaggio.
La solista ha una voce piena, ferma ma dolce e usa il microfono – necessario per un allestimento di questo tipo nello spazio all’aperto dei Giardini della Filarmonica di Roma – come uno strumento di intensificazione del mondo interiore di Marianna, delle sue emozioni, del suo sguardo sulla vita e non come un semplice dispositivo di amplificazione sonora. I vari microfoni sono strategicamente sistemati sulla scena dalla regista Daniela Ardini con l’intento di caratterizzare spazialmente i momenti di uno spettacolo difficile per un’attrice che deve camminare in una mente complessa, nel carattere di una figlia della settecentesca Sicilia nobiliare e immobile, dove una donna intelligente, colta, diversa rappresenta un pericolo. Una Sicilia geneticamente anti-illuministica affollata di cadaveri della Storia, cadaveri viventi – la madre, il padre, la nonna, il fratello, la serva, il servo, il marito-zio che violentò Marianna – rievocati dall’interprete. Uno spettacolo di voci, gesti, posture. Le posture a teatro sono imposture che rivelano verità interiori e, pena la retorica e il calligrafismo, non vanno sottolineate, esibite, altrimenti la verità scappa disgustata di se stessa. La tecnica consente ad Azim la modulazione della recitazione e la precisione nei passaggi interpretativi, quando bisogna centrare il momento successivo senza sporcarlo con il precedente e rendendolo conseguenza lineare e coerente. L’attrice lavora come si sta a tavola nelle grandi famiglie dove la forma, ossia l’etichetta, non è mai affettata ma fluida nel suo rigore feroce e incomprensibile a chi non è abituato, il quale vi vede soltanto un crudele e criptico artificio in luogo di un sofisticato esercizio di trasformazione della rigidità in naturalezza.
La regia ha pensato di usare un’interprete lis (lingua italiana dei segni) per rivolgersi anche alle persone sorde. Marianna è sordomuta dall’età di sei anni in seguito allo stupro subito dallo zio Pietro che poi la sposerà quasi ancora bambina, appena tredicenne. L’idea sembra non solo etica ma registica perché siccome lo spettacolo vive d’un paradosso – la sordomuta che parla – allora la lingua dei segni ricondurrebbe la protagonista alla sua vera condizione. Ma in effetti non c’è bisogno di tale mezzo, di questa specie di sdoppiamento linguistico, perché l’evidenza di trovarsi di fronte a un monologo interiore, in cui la scena è la mente di Marianna, riporta l’uso della lis alla sua dimensione di un servizio allo spettatore che la intende. La menomazione carceraria del personaggio è lo stigma della sua piena libertà mentale che di nulla ha bisogno se non di espandersi sulle distese di una vita. Daniela Ardini appare come timorosa del rischio d’uno spettacolo troppo statico e allora fa fare dei movimenti alla sua attrice, per esempio le mette in scena una cassapanca in cui adagiarsi a un momento, che il testo non giustifica adeguatamente. E il rapporto che la Marianna teatrale ha con la serva Fila (Francesca Conte) non pare quello di una sordomuta ma di un’idea esagerata della sordomuta. Di fronte a un’attrice come la Azim, una regia meno si fa vedere meglio è, come d’un buon dipinto il disegno preparatorio è più per studiosi di pittura che per l’avventore di galleria d’arte. Mentre il Settecento siciliano del romanzo è rappresentato da un unico segno, il bel vestito che la protagonista si toglie per rimanere in abbigliamento bianco da casa e che viene esposto su un appendiabiti a rimarcare non solo l’epoca ma la grande solitudine di Marianna. Perché il senso della solitudine è di sentirsi, se si vuole, un vestito vuoto.