“Scusa si so nato pazzo”, di Rega – Spagnoli – Turco, uno spettacolo della Compagnia Stabile Assai della Casa di reclusione Rebibbia di Roma
Nel carcere della vita
La Compagnia Stabile Assai del penitenziario di Rebibbia è nata nel 1982 ed è la più antica nel panorama del teatro in carcere. Tuttavia rinchiuderla in un simile ambito ristretto, darle significato perché costituita da detenuti o ex detenuti, significa farle un torto, anche se i temi che il gruppo affronta sono quelli attinenti alla reclusione. Lo spazio di questa compagnia è la scena, non la cella, ed è lì che trova la sua ragione d’essere, la sua dignità artistica, la sua qualità antiretorica. Altrimenti vivrebbe solo di una volontà di riscatto dei suoi membri, e l’arte non è riscatto bensì necessità che sempre genera salvazione, salvazione di chi è dentro e di chi è fuori.
Quindi la Stabile Assai è andata in scena al teatro Portaportese di Roma con Scusa si so nato pazzo, scritto da Cosimo Rega, Patrizia Spagnoli e Antonio Turco (anche regista) e ispirato a testi di Edward Bunker, Jean Genet, Jack London e James Ellroy. Lo spettacolo è costruito con una decina di monologhi recitati da otto attori che si alternano a raccontare storie drammatiche di detenuti scivolati dalla depressione a una condizione psicopatologica. Negli interpreti vi è un’evidenza: essi sono segnati, nello sguardo soprattutto ma anche nell’atteggiamento generale, nelle espressioni, nei toni della voce, dalla loro esperienza criminale e detentiva. Si percepisce in loro una durezza e una dolcezza diverse, una densità anche fisica, una malinconia forse accompagnata da una vena sotterranea di stupore nel trovarsi lì, sulla scena, come se si fossero risvegliati a una normalità. Perché è normale fare teatro, recitare, comunicare secondo una strategia da tutti condivisa indipendentemente dalle situazioni personali. Ci si ritrova in questa normalità, attori e spettatori, e la corrente passa a trasmettere cose che comuni non sono eppure da tutti immediatamente comprese. Come si capisce la gelosia di Otello, la passione di Cyrano, l’avarizia di Arpagone, la ferocia di Shylock.
Sono storie di drogati, di detenuti costretti nelle camicie di forza, di ragazzi picchiati dai compagni di riformatorio, di prigionieri nella galera americana di San Quintino che trascorrono cinque anni in isolamento al buio. Mischiati con le vicende personali degli attori, non sono solo racconti di vite in carcere ma di carceri della vita, perché pare a volte – anche a chi non va in prigione – di essere rinchiusi in un’unica esistenza possibile, in un destino immutabile. Non c’è nulla di violento nell’esposizione di vite così dure, così disumane e immerse nella brutalità ma lo spettacolo estrae poesia da esperienze che evolvono oltre la linea della disperazione, oltre il recinto nel quale sta la folla degli uomini che hanno accettato, o finto di accettare, la norma. I monologhi sono inframmezzati da una band formata dalla cantante Barbara Santoni e dai fratelli Turco – Antonio alla chitarra, Roberto alla chitarra e basso, Lucio alle percussioni – che esegue, fra gli altri pezzi, il Domenico Modugno di Tu si ‘na cosa grande e il Francesco De Gregori della Donna cannone. Santoni non è solo una bella voce, ma un’interprete appassionata, calda, piena di emozioni. Quando tutti gli attori si ritrovano insieme per la scena finale, uno di loro legge una lunga dichiarazione d’amore e la Santoni seduta davanti alla quinta di fondo, si strugge in un leggero, discreto lacrimare.
Lavorano in questo spettacolo, che si replica venerdì 8 luglio nel ridotto del teatro Comunale de L’Aquila, Cosimo Rega e Giovanni Arcuri (che interpretarono Cassio e Cesare nel film dei Fratelli Taviani Cesare deve morire, vincitore dell’Orso d’oro a Berlino nel 2012), Mimmo Miceli, Paolo Mastrorosato, Angelo Calabria, Rocco Duca (unico agente di polizia penitenziaria che recita con i detenuti), Max Taddeini e Massimo Tata.