“Lear. La storia” da Shakespeare, adattamento e regia di Giuseppe Dipasquale, protagonista Mariano Rigillo. Al Globe di Roma
Il Re ha delle ragioni che la regia non conosce
Pare di vedere da lontano il momento in cui la grande trovata viene fuori: facciamo fare Gonerill e Regan, le due figlie malvagie e intriganti di Re Lear, en travesti a due attori maschi. E perché poi? Ci sono delle idee geniali capaci di distruggere da sole uno spettacolo. Però siccome lo spettatore è in genere ben disposto verso una messinscena, altrimenti non si presenterebbe in sala, cerca di trovare una giustificazione e si dice che forse il regista Giuseppe Dipasquale avrà avuto una preoccupazione di ordine filologico, essendo che ai tempi di Shakespeare il palcoscenico era proibito alle donne. Ma siccome Cordelia è interpretata da un’attrice, Silvia Siravo, e addirittura il fool, il matto, da Anna Teresa Rossini, l’ipotesi capitombola nel buio della domanda senza risposta e il Re Lear allestito al Globe di Roma si fa male. Nulla più si trova della perfidia muliebre di Gonerill e Regan perché i due interpreti, Roberto Pappalardo e Luigi Tabita, sono molto lontani dal femminile, dalla sorprendente scatola delle meraviglie, meraviglie demoniache o celestiali, che è il femminile. Distanti per scelta o per impossibilità interpretativa, non ha importanza. Nel loro agire e nel loro modo di essere le due maligne figure shakespeariane sarebbero per contrasto un richiamo costante alla altrettanto femminile dignità, al coraggio, alla rettitudine e all’abnegazione di Cordelia. Ma siccome Gonerill e Regan sono diventate Gonerillo e Regano, così il sublime personaggio di Cordelia (al quale è stata risparmiata la trasformazione in Cordelio) affonda in una regia che non riesce a stabilire quelle relazioni fra i vari personaggi che sono palesi nel King Lear, né sembra preoccuparsi di offrire una lettura diversa, magari originale, in rimpiazzo di quella ovvia che naturalmente s’evince da una prima lettura della tragedia. La defemminilizzazione di Gonerill e Regan, che hanno qui stridente andazzo maschile, è vieppiù accentuata dall’eliminazione dei personaggi del duca di Albany e del duca di Cornovaglia, i loro mariti: scelta che causa un’ulteriore caduta nel complesso sistema delle relazioni interne al testo, stavolta fra uomini, e anche dei giochi di potere virile che ne conseguono.
Monco lo spettacolo persino nel titolo, al quale s’è tolta la parola “King” per appellarlo Lear. La storia, come a dire che il re, interpretato da Mariano Rigillo, tale non è. La perdita della regale qualifica si vede in scena: altra idea di rilievo perché se il protagonista non è monarca, che ci sta a fare in una tragedia del potere e della sua catastrofe? Dove è finita l’enormità di un patriarcato sovrano in tutto e per tutto, sia nel comando politico degli uomini che nella supremazia familiare sui consanguinei? E se la regia elimina programmaticamente una grandezza determinata dall’indissolubilità dei due poteri, allora tutta la disperazione e il delirio del re decaduto e umiliato finiscono per essere la tragedia d’un portinaio cacciato dalla guardiola d’uno dei bei palazzi attorno alla Villa Borghese che ospita il Globe romano. Una regia dunque che al massimo è sorveglianza di chi va e chi viene, di chi entra in scena e chi esce e che per esempio lascia il povero conte di Kent (Filippo Brazzaventre), rimasto fedele a Lear, personaggio importante per accompagnare l’azione del re, visibilmente senza indicazioni su cosa fare e su come impostare la prova. Mariano Rigillo si costruisce un suo Lear personale ma inevitabilmente monocorde, caratterialmente monotematico, rifugiato in una gutturalità vocale che dovrebbe dare un po’ di peso al personaggio ma lo rende semplicistico, svuotato di quella complessità che sempre ci si aspetta da una figura così enorme del teatro occidentale. Anche Rigillo è solo perché la regia non gli costruisce attorno nulla, né di originale né di accademico, sul quale l’attore possa appoggiarsi per trovare slancio ed edificare le raffinatezze interpretative che l’arte sua gli permetterebbe.
Shakespeare in genere è praticamente indistruttibile per quasi ogni regia, ma stavolta si finisce male: la morte di Cordelia e del re, svuotate di significato, piombano sulla scena così, perché il testo lo impone, come cade su un sentiero di Villa Borghese la pigna d’un pino. Senza ragione.