Il Teatro delle Ariette all’India con “Sul tetto del mondo” di e con Paola Berselli e Stefano Pasquini

La mia scena è una polenta con la salsiccia

Paola Berselli e Stefano Pasquini nel 1989 si trasferirono da Bologna a Castello di Serravale, in un podere detto “Le Ariette” da cui il nome della loro compagnia, Teatro delle Ariette. La campagna, gli animali, la coltivazione del grano e il teatro. Molti sono quelli che a quei tempi se ne andarono, per scelta o perché espulsi dal “sistema”, come lo si chiamava allora. Non ebbe luogo la distruzione fisica di un’intera generazione, come nel corso della Grande Guerra, ma il suo annullamento attraverso la selezione dei peggiori, quelli che al momento della “fine delle ideologie” (questa colossale sporca truffa intellettuale) assicuravano i loro servizi all’ideologia dominante, la più bestiale e sanguinaria, il neoliberismo capitalista. Il potere finalmente ebbe piena libertà di organizzare il colonialismo della demeritocrazia e di riempire le televisioni, le case editrici, il mondo del cinema e del teatro di servi, di traditori e di incapaci, i quali hanno realizzato quanto era stato loro richiesto, la distruzione della cultura italiana. I i migliori sono rimasti ad arrancare nelle città o sono andati in campagna a coltivare il pomodoro biologico. E adesso che sono invecchiati, che non esercitano da più di trent’anni i loro talenti, è difficile se non impossibile recuperarli e richiamarli in servizio a cercare di porre qualche rimedio, seppur per vana ipotesi l’attuale criminalità al potere fosse spazzata via.
Alle Ariette hanno cercato di fondere vita rurale e vita teatrale. Si sono inventati il “teatro da mangiare”, mentre si sta in scena si cucina anche, come in questo spettacolo all’India di Roma intitolato Sul tetto del mondo: un’autobiografia artistica e sentimentale di Berselli e Pasquini. Bisogna stare attenti alle autobiografie, rischiano di trasformarsi nella retorica della propria vita intesa come avventura unica e irripetibile e in quanto tale meritevole di essere raccontata al pubblico come esemplare. Senza rendersi conto che tutte le vite sono esemplari e tutte le storie degli uomini sono straordinarie, persino quella di un impiegato di compagnia d’assicurazione che si chiamava Franz Kafka. Infatti, dopo un inizio che alterna momenti poetici a passaggi di poco conto sulla loro vita in comune, i due protagonisti si accorgono di scivolare nel pericolo della melensaggine e passano a un registro autoironico nel quale si rinfacciano le piccole beghe della vita quotidiana, le rispettive manie, scoprono alcune illusioni della vita bucolica. Nel frattempo Maurizio Ferraresi e Stefano Massari girano la polenta che cuoce in una pentola. La cucina da campo è montata al centro della scena sulla quale anche gli spettatori prendono posto formando un quadrato. Lo spettacolo ha un andamento ciclico, segue idealmente il ritmo delle stagioni – la semina, il raccolto, la nascita e la morte degli animali, la stessa stagionalità del teatro – simboleggiato da due spaventapasseri che alla fine del raccolto non possono che ritornare alla loro natura di stracci e paglia per risorgere naturalmente l’anno successivo. Alla fine, tutti gli spettatori sono invitati a mangiare la polenta col sugo di salsicce.
Tutto ciò è pieno di buona grazia, una specie di inno all’amore, alla condivisione, a un comunismo agreste non privo di un fascino un po’ sdolcinato. In fin dei conti però è uno spettacolo antitetico al teatro come grande discorso sulla polis che si svolge nella polis e lì trova la sua massima espressione, la sua forza assoluta. Chi se ne è andato alla fine degli anni Ottanta non può che rassegnarsi ad essersene andato, con tutto quel che ne consegue di vantaggi e di svantaggi. Ai bordi di un campo di grano, si può pensare alla polis con ottimi risultati ma a un certo momento bisogna tornare se non si vuole che essa si allontani. Altrimenti partire dalla propria fattoria in campagna per andare in città a spiegare quant’è gradevole la vita rurale è un po’ come mettersi a praticare yoga a via del Corso il sabato pomeriggio prima di Natale. Si può fare anche questo, tutto si può fare a teatro, poi però la domanda è sul sugo di salsiccia: sarà venuto bene?

Marcantonio Lucidi,
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