“Milite ignoto – quindicidiciotto”, uno spettacolo di e con Mario Perrotta. All’India di Roma
Soldato, dimmi chi sei
Traendo il materiale da Avanti sempre di Nicola Maranesi e da La grande guerra. I diari raccontano, un progetto a cura di Pier Vittorio Buffa e dello stesso Maranesi, Mario Perrotta è andato in scena all’India di Roma con un monologo intitolato Milite ignoto – quindicidiciotto. L’attore sta seduto su dei sacchi di trincea e da lì non si muoverà per un’ora e un quarto: una scelta di immobilità fisica che dovrebbe produrre una sorta di compressione di tutto il testo, il quale può uscire soltanto per le due vie della voce e del movimento delle braccia. Vi si parla delle solite cose che caratterizzano la Grande Guerra, il fetore, le bombe, i pidocchi, il fango, le stragi, la fame, gli interventisti, Mussolini contro l’entrata in guerra e poi a favore. Niente di nuovo sul fronte.
Quindi ciò che più importa in questo spettacolo non è quel che Perrotta dice ma come lo dice. La sua è una prova che appare basata sulla volontà più che sul desiderio, una volontà didattica che primeggia su un desiderio poetico. L’attore come macchina di comunicazione, di strategia, piuttosto che generatore di emozioni. Probabilmente è una scelta dettata dall’intento di evitare la retorica che sempre sta in agguato quando si monologa di disgrazie umane di così vasta portata da suggerire una sorta di freddezza descrittiva. Si tratta però di tecnica, necessaria ma non sufficiente a controllare un argomento talmente intriso di sangue e di dolore che in un certo qual modo anche il suo contenimento può essere percepito come un atteggiamento retorico. Perché l’esaltazione avviene attraverso uno sforzo di trattenimento.
La strada in simili casi non è semplice ed è tutta artistica, quindi in un certo senso profondamente onesta: Perrotta qui spiega che cosa sa della guerra, che cosa ne pensa, ma non che cosa sente. E questo è un aspetto fondamentale quando si fa teatro di narrazione. Però è vero che una posizione per così dire sentimentale dell’attore rischia anch’essa di produrre retorica, in misura oltremodo maggiore. Quello che Perrotta non sembra riuscire a compiere, è una trasformazione, processo grazie al quale uno spettacolo finisce per esprimere qualcosa di più grande di se stesso. Il solista è rimasto ipnotizzato dalla guerra mentre, soprattutto in una condizione così estrema, ciò che conta è l’uomo. Più grande della guerra è l’uomo, questo è quello che in buona sostanza insegna Omero. Ma si dirà che Perrotta non è Omero, quindi non si può pretendere. Ma si può tendere. In arte quello che fa sempre piacere osservare è la tensione, il camminare, non il traguardo (che non esiste). Allora la prova dell’attore può piacere o non piacere ma non è questo il punto che invece è contenuto nella domanda: per quanto tempo questo spettacolo resta vivo nella memoria dello spettatore? E la risposta può non essere di gradimento a Perrotta che tanto sforzo ha profuso.