“John e Joe” di Agota Kristof, regia di Valerio Binasco, con Nicola Pannelli e Sergio Romano. Al Piccolo Eliseo di Roma.
Nulla, eppure tutto
John e Joe di Agota Kristof, in scena al Piccolo Eliseo di Roma, è uno spettacolo che dovrebbero vedere prima di tutti gli allievi delle accademie e scuole di arte drammatica. Perché si tratta di una lezione pratica di teatro nella quale si vede bene cos’è una regia, quale è la sua relazione con gli attori, come un attore all’interno di una direzione resta un artista libero e di conseguenza che differenza passa fra recitare un testo e interpretarlo.
Valerio Binasco metteur en scène ha una mano molto precisa e delicata, possiede una capacità di armonizzare il lavoro degli attori, di esaltarne le caratteristiche migliori, quindi li mette nelle condizioni di dispiegare senza sforzo le loro capacità all’interno di una visione coerente dello spettacolo. Questo è un regista. Nicola Pannelli e Sergio Romano, i due interpreti, lavorano sulle basi della clownerie ma utilizzandole come strumento per la costruzione dei personaggi, quindi non in funzione puramente ludica e spettacolare, bensì interpretativa. Ecco allora che questa coppia comica produce complessità in un modo all’apparenza semplice e il loro continuo gioco mimico, fonetico, corporeo, questa incessante produzione di segni e di significati, diventa un testo non verbale che racconta la stessa storia della drammaturgia, con pari intensità e leggibilità. Non è propriamente clownerie, lo è al servizio del teatro, anche se i due, seppur in borghese, sono identificabili da questo punto di vista, Pannelli facendo in sostanza un clown bianco – autoritario, pignolo, logico – e Romano un augusto, o un toni che dir si voglia, impacciato, timido, pasticcione. Sono grosso modo un Oliver Hardy e uno Stan Laurel che qui interpretano due barboni seduti al tavolino di un caffè a bere grappa senza i soldi per pagarla. Poi c’è un terzo personaggio, che al circo sarebbe un domatore, ossia il cameriere che la regia, e questa è una gran trovata, affida non a un attore ma al suono dei passi sul pavimento, tump tump tump, e ai rumori dei bicchierini che vengono idealmente posati sul tavolino, toc toc. Questa presenza invisibile, incombente e allarmante rappresenta le regole della società capitalista, alle quali naturalmente i due barboni cercano sempre di sfuggire. Regole fondate sul denaro, che è l’argomento trattato dalla Kristof con una leggerezza e un’intelligenza affascinanti. John e Joe, scritto nel 1972, è un delicato (anche interpretativamente) meccanismo teatrale che riproduce in miniatura il funzionamento dell’economia, questa non-scienza affidata perlopiù all’incompetenza crassa di boriosi umanoidi. Per il gioco del paradosso, i due barboni si ritrovano detentori di una piccola somma vinta alla lotteria ma risolvono il conflitto che ne nasce attraverso la ferrea logica dell’assurdo. O meglio, attraverso la logica dell’amicizia che l’attuale sistema ritiene assurda. Il vero assurdo è una forma coerente della rivolta fondata su un ragionamento irreale o surreale ma pragmatico, attinente ai fatti, e portato alle sue estreme conseguenze.
La storia finisce nel punto in cui è partita perché il mondo dei barboni (e dell’assurdo) è chiuso in se stesso, non beckettianamente stavolta, piuttosto con moto a spirale e verso l’alto perché i due clochards, dopo l’attraversamento del conflitto tornano solo in apparenza identici a se stessi. C’è stato un salto di coscienza e una conferma che la condizione di ultimi rappresenta una specie di stato di grazia, di purezza, un attraversamento del fango che sommerge il mondo senza inzaccherarsi, seppur una giacca di barbone è forse quanto di più impataccato possa esistere.
Lo spettacolo è perfetto, semplice, fatto con una leggerezza profonda, un paio di sedie, un tavolino, un fiore, due interpreti bravissimi, precisi, poetici, due artisti nudi e puri. Nulla, eppure tutto.