“T’amo ed è continuo schianto” di Rosalinda Conti, regia di Matteo Ziglio, con Giordana Morandini e Stefano Patti. All’Orologio di Roma
Se questi sono i trentenni
Da una poesia di Ungaretti, Giorno per giorno, hanno preso un verso, “T’amo ed è continuo schianto” e ne hanno fatto il titolo di uno spettacolo nel quale si discetta dei seguenti importantissimi argomenti: lui, 31 anni, parla dei criceti e dei conigli di sua sorella, e lei, ventiseienne, della macchinetta col braccio meccanico da manovrare per vincere il pupazzetto; lui ricorda di quando da piccolo diceva di voler fare il pescivendolo di pesci vivi; lei invece pensava sempre alla fine del mondo (il che è già qualcosa); lui informa dei suoi primi piccoli lavoretti – portare le pizze, consegnare i giornali (i giornali esistono ancora e c’è qualcuno che li consegna? Fantastico) – lei sogna una casa piccina picciò per tutt’e due e lui vorrebbe il posto fisso.
Se questi sono gli argomenti dei trentenni o giù di lì, allora questo allestimento all’Orologio di Roma del testo di Rosalinda Conti, diretto da Matteo Ziglio e interpretato da Giordana Morandini e Stefano Patti, è uno spettacolo generazionale. E si può quindi con tutta tranquillità sostenere che il mondo va verso la catastrofe, fattarello di poca importanza se non coinvolgesse anche il teatro. Non si sa se ridacchiare o piagnucolare a guardare questi personaggi “bamboccioni” che danno ragione all’ex ministro dell’economia del secondo governo Prodi, Tommaso Padoa-Schioppa, che così chiamò questo tipo antropologico di giovane nell’ormai lontano 2007. Padoa-Schioppa è morto, i bamboccioni evidentemente sono rimasti. Lunga vita a loro, ma non in scena. L’aspetto involontariamente comico di questo testo è i due protagonisti si lamentano continuamente di quant’è difficile la vita che è come scoprire che i cavalli hanno quattro zampe, i pesci le branchie e le tartarughe si prendono tutto il tempo necessario. Ogni tanto i due si dondolano su un’altalena – a simbolo forse di un’involuzione nell’infantilismo – e sono circondati di girasoli piantati a terra che ricordano tanto la carta da parati anni Sessanta. Signora mia, le buone cose di pessimo gusto.
Si lamentano quindi che il mondo non li considera – però non si capisce perché dovrebbe interessarsi a loro che paiono avere assai poco da offrire – e che si vive al tempo del precariato. Allora forse conviene agli attori in scena riflettere sulla scelta del mestiere che vogliono fare perché non si sta lontani dal vero a pensare che la precarietà sia nata con il teatro 2500 anni fa. Nel frattempo un chitarrista (Marco Russo) canta Vieni via con me di Paolo Conte: “It’s wonderful, It’s wonderful, It’s wonderful”. Meraviglioso spettacolo come l’intelligenza degli elettricisti “così almeno un po’ di luce avrà la nostra stanza negli alberghi tristi” (ma questo è Gelato al limon).
Adesso il punto è: ma se si tratta di uno spettacolo che racconta la generazione dei trentenni, bisogna arguirne che si sta entrando nella notte della civiltà? I due personaggi non mostrano di avere la minima nozione di come affrontare la vita, sperano in un impiego a tempo indeterminato che gli caschi nella boccuccia aperta perché sono giovani e ne hanno diritto a prescindere dal valore individuale. Vero che il precariato è un orrore della peggiore ideologia capitalista, ma qui il grave dramma è che questi due sembrano dei morti che camminano, senza volontà, energia, né desideri se non un salotto con angolo cottura, camera, bagno. Senza idee e soprattutto senza ideali, né per se stessi né per il prossimo, il più semplice e tiepido essendo di lottare politicamente per il salario di cittadinanza. Il finale tragico (lui mette una bomba in un luogo pubblico) conferma che l’autrice parteggia per i suoi personaggi e prende sul serio questi poveretti schiacciati da un mondo brutto e cattivo.
Tuttavia si vuol credere che la situazione dei trentenni non sia tale e che questo non rappresenti uno spettacolo generazionale, ma generico. Quanto ai due interpreti, essi, almeno in questo caso, non sembrano avere risorse maggiori della memoria che serve ad andare in scena. In tutto ciò, l’Ungaretti di “T’amo ed è continuo schianto” c’entra come un autoscontro in un camposanto.