“Trincea” di e con Marco Baliani, regia di Maria Maglietta. Al teatro India di Roma
Bocca di fango, ventre di guerra
Come la storia per Benedetto Croce, il teatro è sempre teatro contemporaneo e si occupa, in qualsivoglia forma, di ciò che interessa agli uomini di oggi. Altrimenti diventa difficile trovargli un senso. Le commemorazioni, come in questo periodo il centenario della Grande Guerra, inquinano le acque e danno l’impressione che gli spettacoli si facciano non perché se ne senta la necessità ma per stare nell’ossequente moda del momento e cavarne circuitazione. Poi il 4 novembre 2018, anniversario della Vittoria, tutto finirà nel cimiterino delle celebrazioni.
Ora, Marco Baliani in scena all’India con Trincea, monologo da lui scritto e interpretato con la regia di Maria Maglietta, esprime nella sua prova una tale urgenza, un coinvolgimento così pieno, da superare la questione della ricorrenza e trasferirsi sul piano, assai più interessante, di una rappresentazione dell’uomo e della guerra. Sceglie di scattare una fotografia, fermare un istante, stringe lo spettacolo per allargare il discorso: in trincea di notte, vestito da soldato, in mano il fucile con la baionetta innestata (dovrebbe essere un Carcano mod. 91), Baliani è un corpo mischiato ai topi, ai pidocchi, al “puzzo di piscio rappreso e paglia marcia”, al fango che si mette in bocca e da cui cerca di suggere acqua “ma resta la polvere che secca ed è peggio” perché non c’è nulla da bere e nulla da mangiare. Tutto qui è corpo, materia destinata a putrefarsi nella terra, che anzi già sta marcendo nel buco infetto della trincea, carne da cannone che scrive su pezzi di carta fradicia lettere alla mamma, al fratello, alla ragazza. Se scrive non si pulisce dai bisogni fisiologici, espletati davanti a tutti perché andare nella latrina significa rischiare di prendere il colpo del cecchino. Chi non ha nessuno a cui scrivere, puzza di meno. Il soldato prega di diventare un mutilato, che sia spappolato un pezzo del suo corpo per uscire dall’inferno mentre le granate, gli shrapnels, le bombe scoppiano tutt’attorno sollevando la terra che la tecnica video del mapping proietta sull’attore, quasi sommergendolo in un olocausto di carne e fango. Il soldato estrae da una botola, dal sottosuolo della trincea che digerisce cadaveri, un manichino, un soldato morto, “non mi guardare così, non è colpa mia, è stato il caso o il destino”, e incomincia a ballare con questo corpo senza vita. “Un’intera nottata / buttato vicino / a un compagno / massacrato / con la sua bocca / digrignata / volta al plenilunio…” (Veglia di Giuseppe Ungaretti).
L’ouverture della Traviata apre lo spettacolo e il Va’ pensiero lo chiude, in mezzo il Potere edifica gigantesche macellerie sull’idiota esaltazione della patria, il cappellano militare incita ad uccidere il nemico in nome di Dio, i traditori sono gli unici esseri umani, per andarsene gli autolesionisti si fanno esplodere un avambraccio con una granata, ci vuole poco ma è difficile, parte il fuoco di preparazione che annuncia l’assalto, il soldato esce dalla trincea e affonda la baionetta nel ventre di un austriaco che apre le braccia ad accogliere chi lo uccide. La morte si è portata via una vita, giovane giovane come ripete adesso senza sosta il soldato, diventato uno scemo di guerra, e la pazzia si è portata via una mente. Le gambe tremano irrefrenabili, nessuno dottore può guarire. Uno spettacolo sul corpo immerso in una follia finisce con la follia che sommerge il corpo. Dal manicomio un’ultima lettera alla fidanzata, la preghiera di capire. L’immagine del nemico che muore è lì per sempre, unita in un matrimonio terribile con una mente mutilata, lei forse capirà ma non può fare nulla, ormai è lontana. “Arpa d’or dei fatidici vati, / Perché muta dal salice pendi? / Le memorie nel petto riaccendi, / Ci favella del tempo che fu!”.
La retorica è evitata grazie all’estrema concretezza dello spettacolo, frutto di lunghe ricerche su fonti d’archivio, memorie, documentari e ricco di suggestioni letterarie – s’evocano Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque, La paura e altri racconti della Grande Guerra di Federico De Roberto. Baliani non giudica ed invece mostra perché l’osservazione dell’orrore è sufficiente e qualsiasi opinione risulterebbe svenevole, didascalica, anche un po’ oscena. È la crudezza qui a commuovere, anche se si tratta di una commozione dura, in punta di baionetta, generata da un colossale scandalo. Manca qualche cosa nello spettacolo e in Baliani che si rotola nel fango e nel sangue della guerra, qualche cosa che è sfuggito di poco, che sta appena fuori dalla scena e non riesce ad entrare. Manca la poesia. La poesia è un atto di pace, diceva Pablo Neruda.