“La versione di Barney” dal romanzo di Mordechai Richler, adattamento di Massimo Vincenzi, regia di Carlo Emilio Lerici, interprete Antonio Salines. Al Belli di Roma
La stanza del tramonto
Senza grandi gesti, senza grandi grida – direbbe Charles Baudelaire – Antonio Salines interprete monologante di La versione di Barney, dal romanzo di Mordechai Richler nell’adattamento teatrale di Massimo Vincenzi, offre una prova da scultore ancor prima che da attore: dentro il blocco di marmo è intrappolata la statua, il lavoro è di rimuovere il materiale in eccesso. Dentro la recitazione è imprigionato Barney, Salines toglie, toglie e toglie finché non resta l’essenza del personaggio, la sua intima costituzione. L’attore vuol far vedere allo spettatore come è fatto Barney, vecchio signore seduto su una poltrona, abbandonato dalla moglie, svuotato dall’alcol, lentamente privato della memoria dall’Alzheimer. La senescenza è prima di tutto sottrazione. Salines proprio questa sottrazione intende restituire, in apparente contraddizione con l’atto di recitare che tutto sommato è un dare, dare vita, manifestazione, temperamento a un personaggio. Il grande attore si vede quando risolve un paradosso apparentemente irrisolvibile e quando raggiunge la libertà oltre la forma e la tecnica senza sentire la necessità di distruggerle.
Il testo teatrale, messo in scena al Belli di Roma da Carlo Emilio Lerici, segue l’originale di Richler: Barney Panofsky, ricco ebreo canadese, produttore televisivo di successo e una vita al servizio di se stesso, decide di scrivere un’autobiografia per discolparsi dall’accusa di avere ucciso il suo amico Bernard “Boogie” Moscovitch e dare la sua interpretazione dei fatti. Ma la verità è che non bisognerebbe mai tramestare troppo nella propria memoria, la pace appartiene a chi ha la ventura di conoscere l’arte di dimenticare, non a chi si aggrappa annaspando ai ricordi mentre il cervello s’immerge nel buio dell’oblio. Allora Barney incomincia a sovrapporre i fatti del passato, li agglutina confusamente, li mischia con il presente, li rimescola in un disordine nel quale gli unici punti di riferimento sono le tre mogli che ha avuto. Ha conosciuto la prima a Parigi negli anni Cinquanta. Cosa può capitare a un uomo di più straordinario d’innamorarsi d’una donna a Parigi (magari passeggiando con lei per il lungosenna verso la Rue du Chat Qui Pêche, la Via del gatto che pesca)? Lo spettacolo è un viaggio in una memoria diventata, dice il protagonista, “come una lampadina avvitata male”. I filmati (curati da Enzo Aronica) che passano su uno schermo rappresentano il cinemino interiore di Barney, le immagini che tutti noi proiettiamo su una parete della nostra mente. Passano le sue donne e “Boogie”, gli parlano come da una piccola luna che s’allontana dall’orbita di Barney, si sottrae, e sempre più fioca è la sua luce notturna che se ne va.
C’è una malinconia in questo spettacolo, però vitale, una sorta di combattiva rassegnazione di quest’uomo che ogni tanto si avvicina a una giacca che penzola da un appendiabiti. Forse vuole uscire ma camminare nella stanza dei ricordi di un’esistenza imbevuta d’alcol, di successi, di sbagli, di amori, di crudeltà e tutto sommato di pietà, finalmente, per se stessi e per gli altri, è un’attrazione irresistibile. Perché tramontare provoca dolore ma sembra contenere una saggezza e un fiotto di luce forte, una intensità di vita, che l’albeggiare non possiede. Di tutto questo, e sicuramente d’altro ancora, racconta Antonio Salines.