“Il violino relativo” di e con Riccardo Bàrbera. Al teatro Belli di Roma.
La musica dello spazio-tempo
Questa è proprio drammaturgia d’attore, è l’interprete che scrive per sé, per le sue caratteristiche interpretative, per la sua idea di teatro. Il violino relativo di e con Riccardo Bàrbera in scena al Belli di Roma ha un sottotitolo che dice tutto: “Albert Einstein e il segreto di Stradivari”. Lo spettacolo è costruito così: c’è un genio in scena, il grande scienziato, che indaga su un genio fuori scena, il grande liutaio cremonese e il trait d’union è il liutaio Simone Fernando Sacconi (1895 – 1973), autore di un importante trattato, “I “segreti” di Stradivari”. Accompagnato in scena da una promessa del violinismo italiano, Giulio Menichelli, e da un pianista, il maestro Andrea Calvani (eseguono pezzi di Paganini, Vivaldi, Mozart, Kreisler e Schönberg), Bàrbera interprete solista non si è dato un compito semplicissimo perché deve caratterizzare con chiarezza e brillantezza i vari personaggi ma senza esagerare, senza che la sua prova si faccia mattatorato distruttivo di una vicenda alquanto affascinante.
Il testo mischia fatti accaduti e di fantasia, una procedura non propriamente condivisibile quando si tratta di personaggi realmente esistiti. Per esempio Einstein e Sacconi non si sarebbero potuti incontrare nel 1901 a Pianazzo, in Valchiavenna, a parlare di violini, come qui si immagina, perché il secondo a quella data aveva soltanto sei anni. Però insomma il teatro è una menzogna che dice la verità e se ciò agli storici non piace, peggio per loro, l’importante è che il pubblico possa immergersi nel sorprendente. D’altronde s’era stupito lo stesso Einstein in una lettera che Bàrbera riporta: “Il violino è uno strumento diabolico che resiste all’analisi matematica”. Il teatro è un’arte diabolica che resiste all’indagine storica. Perché non è vero che, come si sostiene nello spettacolo, il premio Nobel trovò conferma della relatività studiando come erano fatti gli strumenti di Stradivari, però è accertato che il piccolo Albert suonava il violino già all’età di sei anni e malgrado si dice che fosse un esecutore inascoltabile, non si può non pensare a quanto la musica abbia aiutato lo scienziato ad aprire le grandi strade mentali che lo hanno condotto a rivoluzionare la fisica classica. E così fra un violino e lo spazio-tempo corre lo stesso rapporto che fra Bach e il divino. Dio deve qualcosa a Johann Sebastian. L’idea drammaturgica di Bàrbera è di mostrare che Einstein e Stradivari hanno esplorato la stessa incomprensibilità delle cose, anche se la mente del primo non riuscirà a scoprire l’arte segreta del secondo perché la scienza può spiegare molto ma non il genio, che è la più affascinante trovata della natura. È la storia della sfida di un grande cervello che vuole aprire un altro grande cervello per capire come è fatto il suo violino.
Bàrbera è un tipo di attore che trasmette piacere a stare in scena e possiede una recitazione complessa ma leggera, fortunatamente antinaturalistica e naturale, giocosa. Non dà mai l’impressione di stare pensando “adesso devo fare questo, adesso devo fare quello, ora vado in proscenio a dire la battuta”. Il suo è un agio che facilita allo spettatore la comprensione di quanto fa e dice ed è anche la ragione per la quale il regista Paolo Pasquini avrebbe potuto maggiormente costruire un’interazione fra i due musicisti e l’interprete. Invece ognuno fa il suo e le esecuzioni musicali paiono più degli intermezzi atti ad impreziosire la rappresentazione che, come ci si aspetterebbe, occasioni per un dialogo fra l’arte della parola e l’arte del suono. Fra un violino e un uomo che parla di un violino.