“Dark Vanilla Jungle” di Philip Ridley, regia di Carlo Emilio Lerici, con Monica Belardinelli
Donna sulla croce dell’amore
Quando lo spettacolo incomincia, la tragedia è già avvenuta. Dark Vanilla Jungle del britannico Philip Ridley non avrebbe quindi un’azione teatrale. Senonché tutto si svolge nella mente della protagonista monologante che è da vedere come una sorta di interiore città distrutta: una città dell’orrore, con le strade della sofferenza e le grandi piazze della disperazione, i vicoli d’infamie, i palazzi di speranze crollati, le voragini agli incroci del pensiero.
Non è un lavoro facile per l’attrice in scena, Monica Belardinelli, diretta al teatro dell’Orologio da Carlo Emilio Lerici. La solista necessita di una complessità interpretativa e di una capacità di controllo del personaggio (il quale per giunta deve apparire progressivamente fuori controllo) atte a non abbassare il monologo al rango di una distopia grottesca per l’enormità delle disgrazie narrate. Il testo si ferma sempre un attimo prima di diventare inverosimile ed è sufficiente che l’interprete superi di poco quel limite per infilarsi nell’assurdo.
Andrea è una ragazza che è stata abbandonata a cinque anni dal padre, a undici dalla madre ed è finita a casa della nonna che si disinteressa completamente di lei. S’innamora di un uomo più grande, il quale la circuisce, la droga, la offre in pasto ai suoi amici durante un’orgia. Tradimento, violenza, inganno. Discesa scalino dopo scalino nella follia. La città interiore della ragazza si spacca sempre di più. Fin quando, nella ricerca disperata di amore, Andrea finisce in una catacomba della mente: s’innamora di un militare reduce dall’Afghanistan gravemente mutilato e ridotto in stato vegetativo. L’immobilità è l’unica salvezza dal moto distruttivo degli uomini, da questo dispiacere interminabile, irrimediabile. Le radici dell’essere umano affondano nella terra del dolore. Andrea rimane, o crede di rimanere, incinta del soldato, forse partorisce un figlio, forse il neonato è morto, forse lo ha ucciso lei. Feroce è la mente.
Belardinelli recita in una scena disegnata da Alessandro Chiti che è come una scatola, ma si potrebbe dire una tomba, illuminata violentemente da un’esistenza senza ombre. Perché le tragedie della vita non sono giochi di ombre, ma accecante luce del sole di Satana. L’attrice è brava, abile nei passaggi fra i vari registri interpretativi, con una voce chiara e ben impostata, una fisicità elastica e gradevole che le dona presenza scenica. Però c’è una tensione, si intuisce il suo combattimento con il personaggio e la paura di lasciarselo scappare, si vede lo sforzo, la macchina recitativa in funzione che avanza nello spettacolo. Non ci sono ancora la sensazione della facilità del difficile, l’arrampicata senza apparente sforzo, la dimensione liquida che si può ottenere dopo un po’ di repliche quando l’interprete è di buona struttura come la Belardinelli. La regia di Lerici giustamente fa finta di stare in disparte, offre all’attrice una mappa dello spettacolo con le varie stazioni di un calvario che inevitabilmente conduce al martirio di una donna sulla croce della sua sensibilità e dell’amore.