“Calderón” di Pier Paolo Pasolini, regia di Federico Tiezzi. Al teatro Argentina di Roma
Senza lo specchio del meraviglioso
Alcuni del pubblico se ne sono andati l’altra sera durante la rappresentazione del Calderón di Pier Paolo Pasolini messo in scena da Federico Tiezzi al teatro Argentina di Roma. Cosa si sono persi? Si sono persi il tentativo di Tiezzi di portare a termine una regia poetica su un dramma più da leggere che da allestire, su un testo che vuole essere teatro di poesia, dalla struttura complessa, formata da sedici episodi e tre “sogni”. Pasolini trova ispirazione in La vita è sogno del secentesco Pedro Calderón de la Barca, ma non ne segue la storia, anche se riprende i nomi dei personaggi, perché ciò che lo interessa è l’idea. Per il drammaturgo spagnolo – e non solo per lui – l’esistenza è un’illusione, un attimo d’immersione nella vanità delle cose terrene, un rapido viaggio dentro un regno dell’inconsistenza che svela la sua vera natura solo nella morte.
La Rosaura di Pasolini sogna tre vite nei tre mondi diversi dell’aristocrazia, del proletariato e della media borghesia. Si sveglia ogni volta in un letto al centro del suo teatro onirico. Nello spettacolo si comincia e si finisce in un letto, si nasce, si muore, si parla, si impazzisce, si fa l’amore su questa minuscola barca, una linea orizzontale, una infinita debolezza di fronte alla verticalità del potere rappresentata nello spettacolo da Basilio, il monarca del primo sogno che insieme a Doña Lupe, la regina, danno vita al celebre quadro di Diego Velázquez Las Meninas. Il ribaltamento operato da Velázquez – il quadro non è l’immagine dal punto di vista del pittore, ma dal punto di vista di chi è dipinto – equivale al rovesciamento ricercato da Tiezzi: non i personaggi dicono il testo ma il testo dice i personaggi. Il sogno è la vita e la vita è sogno. Il significato di questo spettacolo è che si esiste solo per riflesso e proprio perché la realtà è davanti allo specchio e non dentro, essa è apparente. È una visione profondamente antinaturalistica che il regista riscrive sulla scena attraverso la recitazione degli attori. E con le luci bianche che cadono come il luminoso bianco del pittore si posa sull’infanta Margarita. Con la scenografia, quasi vuota, i letti, un tavolo, per questi corpi che non devono trovare pace perché oltre lo specchio l’esistenza è tumultuosa, è rotolamento d’anime nella vita, nel potere, nel meretricio, nella follia, nelle gabbie dei codici inviolabili delle famiglie e delle classi sociali, nella guerra civile spagnola, nel subbuglio della politica ai tempi di Franco. La prima Rosaura è una ragazzina che vive a Madrid in una casa di genitori nobili e franchisti, la seconda Rosaura è una prostituta, la terza una madre borghese afasica e narcolettica. In tutti e tre i casi si sviluppa un dramma edipico, un amore incestuoso.
Tiezzi ama molto Pasolini, ne ha frequentato sovente l’opera. Nel libretto che accompagna lo spettacolo, dove si ricorda che “calderon” in friulano vuol dire “inferno”, si sostiene e si ribadisce, come a scacciare un’orribile calunnia, che quello di Pasolini è teatro a tutti gli effetti. La cattiveria indurrebbe ad affermare più interessante il programma di sala del dramma allestito con tanta perizia, una messinscena che però è costruzione di una carrozza d’oro per trasportare non persone ma corpi mossi da attori, fra i quali Sandro Lombardi (Basilio); Francesca Benedetti (Doña Lupe); Camilla Semino Favro, Lucrezia Guidone, Debora Zuin (le tre Rosarie). I personaggi sono solo corpi, l’unica anima è Pasolini che li abita tutti e che, con lo sguardo interamente rivolto a se stesso, ipnotizzato dalle manifestazioni della propria mente, non si accorge che il teatro è filosofia in azione, non letteratura dialogata. Soprattutto, la scena è il luogo del meraviglioso. Così come lo è il potere d’altronde, al quale il popolo non chiede tanto speranza o promesse, ma meraviglia. Il potere scade nel pubblico ludibrio senza il meraviglioso e si trasforma agli occhi dei cittadini in una strega lambiccatrice di malefici sortilegi fiscali, gravida di mostri burocratici, tenutaria di spaventose carceri ideologiche. E il grande teatro sa che solo la meraviglia lo salva dalla mortifera coazione a ripetere della realtà e lo restituisce alla sua funzione creativa e non ripetitiva.
Sicché è più avvincente parlare del teatro pasoliniano che vederlo. L’antinaturalismo promette l’entrata in mondi altri, in grandi vascelli oceanici che lasciano la terraferma della realtà per esplorare ciò che sta al di là, che è il sogno e che fa parte della natura come le ore della notte fanno parte della giornata di un uomo. Ma guardare il sogno, come fa Pasolini, non è sognare, perché sarebbe come guardare la nave e confonderla con il viaggio. Del viaggio si avrebbe la nostalgia, il desiderio, il racconto anche, ma non la conoscenza. Il Calderón è racconto di una critica alla borghesia e al potere, non esperienza come promette. Perché quando si oltrepassa lo specchio, quel che si cerca è il riflesso stupefacente della realtà che finalmente mostra la sua vera natura abitata da furiose streghe dei boschi, orchi cannibali, bande di Erinni e di Baccanti, da piccoli elfi di mondi platonici e ninfe trasparenti, tronchi di alberi bruciati, ombre sconosciute di sogni irrealizzati, cadaveri di spiriti esausti sotto ai quali forse si nasconde l’arte.