“Aspettando Godot”, regia di Claudio Boccaccini, con Pietro De Silva e Felice Della Corte. Al teatro Ghione di Roma
Godot non arrivò e Beckett neppure
In un trattato delizioso quanto geniale, L’ingegnosa arte di fare teatro, il commediografo britannico Alan Ayckbourn fa una considerazione molto semplice e vera: “Tutti gli scrittori esagerano nello scrivere (compreso Shakespeare)”. In effetti, sostenere che i testi non devono mai essere tagliati è una sottile forma di bigottismo che può andare bene per il messale. Però tagliare quaranta minuti delle due ore circa di Aspettando Godot è come trasformare l’Orlando furioso nel Lando furioso. Talmente si perdono i significati originali del dramma di Beckett che nella versione di Claudio Boccaccini in scena al Ghione non più Vladimiro ed Estragone paiono i protagonisti ma Pozzo, il personaggio che a un certo momento del primo e del secondo atto arriva portando Lucky attaccato a una corda. Il vero peccato è che a fare Vladimiro il regista ha chiamato un bravissimo attore, Pietro De Silva.
De Silva è un caso esemplare nel panorama dello spettacolo italiano di questi ultimi due decenni perché è lui che ne La vita è bella interpretava Bartolomeo, l’amico di Benigni nel campo di concentramento. Nell’Italia degli anni Sessanta – Settanta, dopo una simile prova un attore sarebbe stato definitivamente lanciato. Invece De Silva non ha avuto la considerazione che meritava e se per sua fortuna ha continuato a lavorare, non gli è mai stata data la possibilità di imporsi per quel che valeva. È così che l’Italia butta il talento, di questo attore come di molti altri.
Estragone è affidato a Felice Della Corte che dà al personaggio una caratterizzazione fortemente napoletana. Anche in questo caso, seppur l’uso del dialetto in Aspettando Godot non è proprio una trovata nuova, si sarebbe voluto vedere come si sviluppava la prova dell’interprete. Purtroppo Della Corte non è stato meno penalizzato di De Silva da tagli – via questo pezzo, via quest’altro – che gli hanno impedito di dispiegarsi a dovere. Eppure la messinscena sembrava ben avviata nel solco beckettiano con Vladimiro ed Estragone in bombetta che suggerivano una loro natura di clown in disarmo, confermata dal costume di Pozzo, un’uniforme da presentatore di circo con in testa una feluca che nel secondo atto sarà sostituita da un cilindro basso, anch’esso tipicamente circense. Anche altri momenti danno l’aria d’una regia che aveva idee precise, condivisibili o meno non ha importanza, conta la coerenza: per esempio nel famoso monologo di Lucky al primo atto, la musica sale lentamente sulle battute fino a sovrastarle. Chi ama sentire tutto il passaggio non sarà stato contento ma la regia indica che il lungo monologo essendo improntato all’assurdo più misterioso, le parole in sé valgono poco una volta che s’è capito il gioco, ciò che importa è che Lucky parli. Anche perché nel secondo atto sarà diventato muto (e Pozzo cieco).
Siccome la coerenza estetica e poetica di una messinscena primeggia rispetto all’approvazione del pubblico, soprattutto quando non si sta rappresentando una commedia brillante ma il testo fondamentale del Teatro dell’Assurdo, allora non si capisce cosa Boccaccini abbia voluto dimostrare tagliando quaranta minuti. Sono saltati tutti gli equilibri del testo e tutti i rapporti fra Vladimiro ed Estragone, che sono delicati, che stanno sulle punte di una ballerina, ma la regia non ha trovato frugando in questo sventramento il nuovo, una possibilità ancora inesplorata di fare Aspettando Godot. Ne viene fuori l’impressione che semplicemente Boccaccini abbia giudicato il dramma troppo lungo. Difficile però giustificare la mutilazione di una Tempesta shakespeariana per il solo fatto che tre ore son troppe, in genere si maschera la faccenda con nobili motivazioni artistiche, a volte coerenti con lo stile della messinscena, altre volte astutamente ipocrite. Ma l’ipocrisia è necessaria, in fondo è uno dei sistemi che gli uomini hanno trovato per non dirsi continuamente le cose in faccia e salvaguardare un minimo di convivenza civile.
Pozzo è interpretato da Riccardo Barbera con abilità e forse anche con la prudenza di chi sa che il personaggio qui ha delle responsabilità non previste dall’autore e non risolvibili dalla regia. Però Barbera fa finta di niente, costruisce il suo ruolo come un’entità indipendente e risolve la sua serata. Roberto Della Casa (Lucky) viene messo del tutto in ombra, salvo naturalmente durante la prima parte del monologo da lui ben risolto, quindi senza averne colpa lascia lo spettatore con il desiderio inappagato di sapere che altro avrebbe potuto fare. Il ragazzo che chiude il primo e il secondo atto è Francesca Cannizzo en travesti.