“Figli, mariti, amanti… il maschio superfluo”, testo di Simona Izzo e regia di Ricky Tognazzi anche interpreti alla Sala Umberto di Roma

Figli, mariti, amanti

Il teatro fatto da casa

A volte bisogna essere grati a quel teatro che Antonin Artaud disprezzava definendolo “facile e fittizio, il teatro dei borghesi, militari, benestanti, commercianti, mercanti di vini, professori di acquerello, avventurieri, passeggiatrici e premi Roma”. Di borghesi e professori di acquerello non se ne vedono quasi più, il premio Roma a Villa Medici è stato abolito da André Malraux nel ’68, la naja obbligatoria nel 2005, i commercianti chiudono, quindi in sala buoni clienti per avventurieri e passeggiatrici non se ne trovano. Quanto ai mercanti di vini, sono riusciti ad accreditarsi come grandi maestri dell’arte enologica e una bottiglia può valere assai più di un barattolo di “merda d’artista” di Piero Manzoni, ma non per questo essi vanno a vedere la prosa. Eppure il teatro facile resiste alla scomparsa del suo affezionato pubblico perché funziona un po’ come Asterix, alla fine della lettura tutto sommato qualcosa su Giulio Cesare s’è imparato. E questo è sempre molto utile in società, dove è d’uso conversare fra un sorso e l’altro di vino d’artista.
In effetti Figli, mariti, amanti… il maschio superfluo, commedia scritta e interpretata alla Sala Umberto di Roma da Simona Izzo in scena con Ricky Tognazzi anche regista, qualcosa insegna. Spiega per esempio come mai molte donne sono passate dal bistrò al bisturi: lo fanno per lottare contro il tempo, per piacere ancora al marito, rivela la protagonista a chi in sala non l’avesse capito e s’ostinasse a ritenere la chirurgia estetica il segno dell’orrido nella società contemporanea. Inoltre lo spettacolo informa su un aspetto fondamentale dei nostri giorni e cioè che i costumi sono cambiati e che la new middle class ha il figliuolo omosessuale che si sta separando dal compagno, entrambi padri di una bambina ottenuta da una madre surrogata. Però non c’è da preoccuparsi, tutto cambia e niente cambia, e dopo tanti anni di matrimonio si va come sempre a fare l’amore fuori casa, che è tutto sommato una prova rassicurante di stabilità familiare; i figli sono tuttora e fin da Caino e Abele piezz’e core, figlio, mormora la mammina, tanti balocchi per te e niente profumi per me; gli amici sono dei rompiscatole combinaguai problematici e nevrotici però hanno il merito di offrire dei diversivi trillanti al tran-tran del train de vie transumanante dal trascinamento al tradimento.
Izzo e Tognazzi sono una commediografa e un regista, assieme formano una coppia. Anche nella commedia, va chiarito, non solo nella vita. Così il loro compito in scena è molto facilitato perché non hanno da affrontare questioni di interpretazione, verità dei personaggi e altre quisquilie del genere. Non sono né bravi né pessimi perché fare se stessi è un’abitudine così ben radicata nell’animo d’ogni essere umano che è difficile sbagliare. Seppur è vero che alcuni si credono Napoleone e altri i suoi stivali, sono casi bizzarri, quindi non sia mai che si diventi un altro interpretando la propria persona, bisognerebbe ridiscutere tutti i manuali di tecnica dell’attore. Anche a chi non è mai stato nel loro salotto appare chiaro che tutti quei bisticci e punzecchiature e polemiche da coppia litigiosetta che però si vuol tanto bene da qualche decennio, altro non sono che il trasloco delle loro ore domestiche sul palcoscenico della sala Umberto. Un teatro fatto da casa, una trama a legare il materiale della quotidianità, che è un peccato sprecare, basta fare la differenziata, e un po’ di temi dell’attualità, ed ecco la commedia servita come un gelato artigianale sulla spiaggia di Campo Ascolano, accanto al Villaggio Tognazzi.
In scena c’è Giuseppe Manfridi a interpretare l’amico della coppia, il personaggio che mette in moto l’azione. Manfridi è un drammaturgo, però ha una sua tensione interiore da showman che lo indurrebbe ad esagerare ma che cerca di controllare perché ha precisa contezza di cos’è la comunicazione teatrale e quindi la sua prova serve bene lo spettacolo con quel suo stare ai limiti dell’eccesso. In scena lavora anche Kiara Tomaselli che fa l’amante e per fortuna entra a commedia molto avanzata. In questo caso bisogna ricordare che fare l’attrice teatrale è una vocazione, come fare le monache. Pare che alle monache capiti di sentire dentro di sé l’invocazione a dubitare della vocazione.

Marcantonio Lucidi,
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