“Colette e il music-hall”, uno spettacolo ideato da Riccardo Cavallo, a cura di Claudia Balboni. Al teatro Stanze Segrete di Roma
La solitudine dell’arte varia
Ci possono essere molte ragioni per mettere in scena uno spettacolo, non tutte specificamente teatrali. Claudia Balboni ha riproposto al teatro Stanze Segrete Colette e il music-hall, ideato alcuni anni fa da Riccardo Cavallo, un bravo regista scomparso improvvisamente nel 2013 per un infarto e che s’era distinto grazie a vari suoi lavori, in particolare un Sogno d’una notte di mezza estate.
Claudia Balboni è un’importante doppiatrice, cioè un’attrice che ha cercato con il talento della sua voce di limitare i pericoli estremi cui va incontro chi sceglie di vivere d’arte e di spettacolo. Che sono proprio i pericoli di cui parla Colette, la famosa scrittrice francese scomparsa nel ’54, l’autrice de Il grano in erba, in un suo libro del 1913 L’envers du music-hall (I retroscena del music-hall). Vi si descrive il mondo delle ragazze povere di provincia che vivono di palcoscenico, di arte varia, di lunghi viaggi ferroviari in carrozze di terza classe, di camere d’albergo a poco prezzo, di tournée terribili che attraversano il paese toccando trentatré “piazze” in trentatré giorni. E poi ancora vagoni e altre stamberghe e di nuovo teatri, portandosi dietro cavallini nani, asini bianchi, scimmiette ammaestrate e malinconiche, orsacchiotti che gemono di fatica, vecchi cani di quattordici anni che lavorano sul palcoscenico, saltano gli ostacoli, ballano il valzer, fino all’ultimo giorno della loro vita. Tutti insieme, sempre in cerca d’una minestra calda, uomini, donne e animali, colmi della solitudine spaventosa dell’artista che è eternamente vero dentro di sé, sempre straniero nella società degli umani, quindi inesorabilmente autentico fra una finzione e l’altra, fra lo spettacolo di ieri e quello di stasera, sulla strada che va da Nîmes a Marsiglia, sognando i grandi palcoscenici di Parigi, Vienna, Berlino e finendo invece a Tunisi a esibirsi in numeri per i francesi del protettorato. Colette ha fatto questa vita per un periodo, dal 1906 al 1912, denudandosi anche durante le sue esibizioni, come ha fatto tante altre cose, la grande scrittrice, la giornalista, la sceneggiatrice, il critico teatrale e cinematografico, persino la proprietaria di un istituto di bellezza che ebbe poca fortuna. Nel music-hall era mima e danzatrice e la si ritrova qui, insieme alle sue compagne di ventura, alla ballerina “tombée enceinte”, “caduta incinta” in un attimo di debolezza, di sogno, di desiderio d’abbracci, di dolce illusione femminile per un maschio, chissà, forse un ufficiale di cavalleria di Saumur, che naturalmente è scappato. Sotto la Belle Époque, sotto le mani della costumista di compagnia passano gli abiti luccicanti e i corpi delle artiste lisi dagli eterni sguardi dei borghesi di provincia. Dodici franchi a sera prende un attore, un franco e cinquanta se ne va per la notte in albergo, due e cinquanta per ogni pasto, cinquanta centesimi per la mancia al cameriere, con la tournée non gli riuscirà di mettere da parte i duecentoventi franchi necessari a sopravvivere un paio di mesi senza lavoro.
Lo spettacolo è costruito con monologhi che si intersecano – interpretati dalla stessa Balboni e da Elisa Carucci, Ughetta d’Onorascenzo, Cristina Noci, Elisa Pavolini – perché il soliloquio è solitudine teatrale, un violino d’autunno, un suono dal languore malinconico, la gioia triste dell’artista che se ne va dopo avere finito il numero.
Brugnoletto, di cui parla Alberto Savinio nei suoi Palchetti romani, era stato negli anni Venti un popolarissimo comico del varietà. Al secolo si chiamava Giuseppe Ciocca, ma il nomignolo d’arte di Brugnoletto glielo aveva affibbiato Trilussa. Chi lo vide nei suoi tempi migliori, lo descriveva come artista di straordinaria vitalità, capace di trasformare la scena in un mondo, una galassia, un cosmo attraverso la sua voce, i suoi gesti, i movimenti. Il pubblico, che lo acclamava come un dio, era il popolo dei varietà di seconda categoria, perché Brugnoletto in prima categoria non arrivò mai ma, antifascista perseguitato, sempre più discese in terza, quarta, quinta. Savinio lo rivide a Torino nel 1935 in un cinematografo di Porta Palazzo: “Cantò una canzone che nessuno capì con una voce da carta vetrata consumatissima, poi se ne andò a pigliare il tram, solo, sotto la pioggia. Gli mancava l’eleganza Novecento”. Colette invece l’aveva, l’eleganza Novecento, per questo in Francia la ricordano ancora.