“Gli innamorati” di Carlo Goldoni, regia di Andrée Ruth Shammah, con Marina Rocco e Matteo De Blasio. Al teatro Vascello di Roma
Le baruffe dei criceti
Goldoni guarda il mondo come se fosse una gabbia di criceti. Il suo è lo sguardo d’un dio bonario e longanime che da un balcone celeste osserva incuriosito l’umanità e pensa: questa è proprio buffa gente. Gli uomini corrono e corrono dentro le loro ruotine, forsennati e affannati, un po’ ridicolosi come direbbe il veneziano, il quale scrisse Gli innamorati nel 1759. Commedia oggi poco rappresentata eppure importante perché segna l’inizio d’un periodo molto fecondo per Goldoni. Sono di quegli anni titoli come I rusteghi, Le baruffe chiozzotte e soprattutto la Trilogia della villeggiatura. Poi, nel 1762, terminata Una delle ultime sere di carnovale, va a vivere a Parigi e s’inoltra nell’ultimo trentennio della sua esistenza, per lui assai meno gratificante.
La messa in scena de Gl’innamorati nell’adattamento di Vitaliano Trevisan, che Andrée Ruth Shammah regista ha portato al Vascello di Roma, è un’ottima occasione quindi per vedere un Goldoni al massimo delle sue capacità tecniche che domina completamente l’arte teatrale. E che viene qui servito dall’allestimento come meglio non si potrebbe.
La regista veste tutti i personaggi di bianco, salvo qualche debole accenno di colore qua e là, un mantello nero per lo zio Fabrizio che ricorda la zimarra di Pantalone, un cappello a cilindro per il signor conte. Il bianco, diceva Kandinsky, per il quale il problema dei colori superava di gran lunga la semplice questione estetica, “sulla nostra anima agisce come il silenzio assoluto. Questo silenzio non è morto ma rigurgita di possibilità vive. È un niente pieno di gioia giovanile o, per meglio dire, un niente prima di ogni nascita, prima di ogni inizio”.
Gli innamorati goldoniani, Eugenia e Fulgenzio, sono appunto pieni di vitalità nei loro continui bisticci e strilletti e arrabbiature, sono l’amore prima della felicità, la gelosia prima dell’unione, la tribolazione che precede la passione. Sono due criceti che si rincorrono e s’azzuffano e si rappacificano nella gabbia dell’innamoramento. Non vi sono fra loro vere ragioni di conflitto, ma motivi futili, ansie, paure, dispetti, impertinenze che cagionano scaramucce, lei con i minacciosi e inoffensivi pugnetti alzati, tipetta bionda tutto pepe vanitosetta e capricciosetta, lui moro asprigno ed elettrico, maschio nevrastenico inesperto di donne che si lascia sballottare qua e là dalle ubbie della sua amata. Non vi è un dramma perché non vi è pericolo né interessi contrastanti se non che a un certo momento il conte ambirebbe al matrimonio con Eugenia ma si tratta d’una sciocchezzuola che neanche fa in tempo a manifestare una qualche minaccia e già s’appiana. Questo è un delizioso studio sull’amore – e sul sospetto, il tormento, l’insicurezza – ma è uno studio che l’arte di Goldoni dissimula sotto l’apparenza della naturalezza. La regia segue l’autore nella sua scientifica osservazione e concentra tutto l’allestimento sui due giovani che sono rispettivamente Marina Rocco e Matteo De Blasio. Li fa risaltare bianco su bianco perché nella loro condizione amorosa sono diversi da tutti gli altri personaggi ma in sintonia con la società che li circonda. Che è un po’ vana, un po’ tediosa, presa da se stessa, incolore per dirla al contrario di Kandinsky, anche se la ragazza, orfana di padre, non ha più dote perché lo zio se l’è mangiata con certi suoi affari scombiccherati. Però neanche questo ha importanza, il giovane è ricco e provvederà. E se lo spettacolo è tutto concentrato sui due innamorati, mentre gli altri sono figure che servono soprattutto a dare ritmo e movimento, a goldoneggiare se si vuole, ché Shammah non si lascia sfuggire una sola occasione di fare teatro con questo meraviglioso mago veneziano che sapeva tutto degli uomini e della scena, allora sono Rocco e De Blasio ad avere in mano le chiavi del successo o del fallimento. Ma sono deliziosi e impeccabili i due interpreti, ricchi di gesti e toni e avvinghiamenti, baruffe, svenimenti, disperazioni, abbracci, bronci, voltafaccia – senza mai strafare e stufare – smancerosa lei col nasino all’insù, maramaldo lui ma finto, col ginocchio a terra per paura di perderla. Bravi anche tutti gli altri, bene in parte, bella compagnia che sa fare Goldoni questa del Teatro Franco Parenti di Milano: Roberto Laureri (il conte), Elena Lietti (Lisetta e Clorinda), Alberto Mancioppi (Ridolfo), Silvia Giulia Mendola (Flamminia), Marco Balbi (lo zio Fabrizio) Andrea Soffiantini (Succianespole). Da vedere.