“Come te” di Maria Letizia Compatangelo, regia di Donatella Brocco, con Gianna Paola Scaffidi e Marina Magoni. Al teatro dei Conciatori di Roma
Oltre l’odio, la donna
In Come te, dramma di Maria Letizia Compatangelo in scena al teatro dei Conciatori, lavora una giovane attrice interessante, Marina Magoni, che fa una parte non facile a rischio di patetismo. Invece la ragazza dimostra un bel controllo del personaggio, sa tenere la scena anche quando non è in battuta, possiede carisma e quella particolare sensibilità interpretativa che le permette di modulare la propria recitazione in modo da offrire un arco evolutivo al ruolo affidatole. È un’attrice che studia evidentemente, oppure ha istinto e quindi fa un buon servizio al testo della Compatangelo perché le sue battute suonano sempre come necessarie.
L’autrice ha scritto un dramma, o forse sarebbe meglio dire un duello, fra due donne che consente, in particolare allo spettatore maschio, di osservare con precisione la qualità della sensibilità e dei sentimenti femminili. Attraverso un gioco delle opposizioni si svolge la vicenda, costruita sul progressivo disvelamento di una situazione tragica usata come un reagente per determinare il comportamento e la composizione di due psicologie alquanto diverse per storia personale e condizione sociale. Irina è una giovane rumena che si presenta per un colloquio di lavoro nell’ufficio di Lea, manager affermata e benestante. Le due donne inizialmente si piacciono, anche se l’autrice segnala qua e là nella prima parte del dialogo delle increspature, delle rapide dissonanze, a mo’ d’un mare all’apparenza placido ma infido che una mano drammaturgica abile e ferma nel governo dei personaggi alza progressivamente fino a una tempesta le cui ragioni non vanno rivelate per non privare lo spettatore della suspense.
Non solo la maternità qui è in gioco ma il rapporto con la vita e la morte, con la malattia, con la continuità di sé nella propria progenie e con l’odio, il rancore, la vendetta e la rivincita, con la difficoltà a rimanere se stessi, integri, non inquinati dalla fatica e dal dolore di un’immersione nella propria biografia. Come delle anime possono rifiutare la tentazione di soccombere alla macellazione che il destino opera su di loro è sinteticamente il tema di uno spettacolo che, al contrario della prassi tragica, non annega in un epilogo di dissoluzione e morte ma risale dalla catastrofe a una rigenerazione dell’esistenza su un piano eticamente più elevato. La catarsi in questo caso non è purificazione attraverso una distruzione ma mediante un nuovo incominciamento. E questo aspetto è molto femminile, molto vitale e rigenerativo. L’azione è tutta nel dialogo che è fitto, ondula, s’appiana, sussulta. La direzione di Donatella Brocco dovrebbe esaltarne i ritmi, accompagnarne il movimento, rintracciare le occasioni per dei silenzi, delle pause, allungare anche di qualche minuto l’intero spettacolo per dare modo agli attori di interpretare fino in fondo un testo che abbisogna di respirare e di dispiegare (di spiegare) le motivazioni e le emozioni dei personaggi, che sono complesse ed evolvono con gradualità sotto gli scoppi dello scontro fra le due donne. A teatro i sentimenti notoriamente non si possono recitare, però appunto si interpretano personaggi con sentimenti, non l’amore ma l’innamorato, non la gelosia ma il geloso. E qui non l’umanità di due esseri ma due esseri umani di fronte a un dilemma che supera le convenzioni sociali e propone un altro modo di intendere la relazione fondamentale fra individui, quella familiare. Quindi di fronte a un tema di così vasta portata, anche lo spettatore ha necessità di tempi di assorbimento, d’un suo abituarsi a un dramma a lui non noto che va come una bicicletta, da inforcare per una perlustrazione di panorami nuovi o al contrario per correre una gara ciclistica. E chissà perché, la regia sembra metter fretta alle interpreti: quel che è un duello verbale si trasforma a volte in cozzi contro muri di parole. Non vi sono tregue che preparino i colpi di scena né sospensioni che esaltino la tensione drammatica. Sicché Gianna Paola Scaffidi nel ruolo di Lea, a cui sono affidati momenti decisivi per l’evoluzione della situazione e della relazione fra le due protagoniste, ha materialmente poco tempo per accompagnare le mutazioni della condizione interiore del suo personaggio, visto che comunque si sta in un teatro dove l’azione è costituita da un movimento d’anime. E anche la Magoni avrebbe forse vieppiù espresso le sue potenzialità con una regia più generosa in pause e silenzi. I silenzi sono densi di significato, come insegnava Eduardo. Sono a teatro quel che gli occhi sono nella vita, finestre su paesaggi interiori. In scena lavora anche Igor Mattei nella parte del figlio di Lea, ruolo minore che interviene all’inizio della rappresentazione e che però ha un buon momento comico adeguatamente sfruttato.