Il Teatro del Carretto con “Le Mille e una notte” al Vascello di Roma
Bruti, sporchi e cattivi
Lo spettacolo in scena al Vascello di Roma del Teatro del Carretto, “Le mille e una notte”, che con la famosa raccolta araba di novelle c’entra poco, è l’esempio di come si possa servire male una giusta causa. Al punto da far venire la brutta idea che la giusta causa diventi uno schermo difensivo atto a impedire o comunque limitare un’eventuale disapprovazione. Siccome si parla di un argomento etico e morale, allora lo spettacolo non è contestabile. Invece qui il brutto impera – per giunta a scapito del tema che è la violenza sulle donne – secondo l’idea che per mostrare l’orrore di cui è capace l’umanità bisogna fare un teatro orribile, esso stesso involontario propalatore e moltiplicatore del laido che ci circonda.
Maria Grazia Cipriani drammaturga e regista prende i personaggi di alcuni grandi miti e tragedie occidentali, Pasifae, il Minotauro, Teseo e Arianna, l’Orlando e Angelica ariosteschi, la Desdemona e l’Ofelia shakespeariani e costruisce il calvario, la crocifissione, lo stupro, la cannibalizzazione della donna nel corso dei millenni. Non è un’idea nuova, tutto sta in come la si mette in scena. Il Minotauro è un attore nudo che fa il toro muggendo, strillando e rotolandosi per terra in una specie di parodia non voluta dell’uomo-bestia. Teseo è un culturista ringhioso da sottocinematografia alla Jean-Claude Van Damme che per una buona decina di minuti si mette in posa e gonfia i muscoli, i bicipiti, i pettorali, i dorsali. Una specie di grottesco maschio-scimmione che emette suoni gutturali, ruggisce come Godzilla, sbatte per terra la donna, che sarebbe Arianna, e combatte testa contro testa con l’altro scimmione, pardon il Minotauro, in una rappresentazione teatralmente puerile, quindi controproducente, della brutalità cavernicola e dell’imbecillità virile. Manca solo che i due si battano i pugni sul petto, però l’urlo da giungla lo mandano. Tutto ciò è ridicolo, roba da bambini: aspetta adesso io faccio il toro, meuh meuh, e io il guerriero, grunt grunt. Uno dei due attori finge di strappare un cuore da un torace, poi per segnalare che ancora pulsa alza la mano semiaperta e fa tutum tutum con la bocca. Si prova imbarazzo per chi sta in scena, costretto a fare non l’interprete ma l’imitatore di bestie.
Tuttavia rispetto si deve ai tre attori di questa roba, Fabio Pappacena, Giacomo Vezzani ed Elsa Bossi, che fanno un duro lavoro fisico per mettere in pratica le indicazioni di una regia infantile. La Bossi deve restituire una femminuccia rimpiccolita a povera vittima sacrificale di maschi subumani, figura patetica inerme, debole e implorante misericordia. Una visione dozzinale e paradossalmente maschilista. Non si fa un bel servizio alla donna, nello spettacolo sembra quasi che attiri la violenza e le disgrazie su di sé facendosi carne per banco di macelleria e che la sua salvezza non stia nelle proprie risorse ma nella misericordia del macellaio. A tanto è ridotta Eva, in ginocchio a implorare pietà? Naturalmente non è vero, le donne hanno difeso e difendono la loro dignità, anche contro le fanatiche del velo, quindi anche contro le loro simili, sono delle magnifiche combattenti, gravide sì ma di coraggio e di onore, sanno essere dee, eroine, guerriere, regine (regine vere, non della casa), a volte purtroppo persino baccanti e divoratrici. Questa idea della femmina codarda, tremebonda, povera cosa alla mercé di botte, stupri e pistolettate è falsa, spaventosa, antifemminile; è un modo di scoraggiarla e condannarla a un destino infame. Questo sembrerebbe essere un argomento di second’ordine rispetto al tema dello spettacolo – l’incredibile ondata di aggressioni e femminicidi cui si assiste di questi tempi – ma questa strana esaltazione della violenza maschile mascherata da indignazione, questo dramma della donna senza nobiltà e senza valore, per giunta scritto e messo in scena da una donna, è essa stessa una forma di sottomissione. Ma chi si fa schiavo sarà schiavo. Sono arrivate le virili scimmie di periferia, brutte, sporche e cattive (altra logora banalità ma si sa, il maschio deve puzzare), il prode Orlando – Tarzan è fra loro e brandisce la fida fallica spada Durlindana. Povero Ariosto, trattato come un volgare scrittore di priapesche sopraffazioni.
La scenografia di Graziano Gregori prevede un armadio quattro stagioni che a un certo momento si apre mostrando scarpe femminili e teschi ordinati sugli scaffali. Due banditori conducono un’asta vendendo al miglior offerente vestiti femminili macchiati di sangue appartenuti a donne stuprate e massacrate nella ex Jugoslavia, in Congo e altrove nel mondo in cui si sono compiute stragi. Teatro retorico che vuole fare vedere d’essere feroce quanto i feroci nella condanna della ferocia e si abbassa a caricatura della ferocia. Eppure il Carretto s’è distinto negli oltre trent’anni dalla sua nascita per spettacoli di ben altra qualità. Evidentemente la decadenza degli artisti nasce quando essi incominciano a fare la parodia di se stessi. Sul volantino dello spettacolo il nome di uno degli interpreti è sbagliato, Nicolò Belliti al posto del presente Pappacena. Anche informare il pubblico di chi veramente sta in scena è rispetto per gli attori.