“The dubliners” di James Joyce, uno spettacolo di Giancarlo Sepe al teatro La Comunità di Roma

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Il suicidio dei fiori

Lo spettacolo di Giancarlo Sepe, The dubliners, dall’omonima raccolta di racconti di James Joyce, è magnifico. Per scienza teatrale, per visionarietà, per intelligenza. Sepe è forse il miglior regista di questi anni e l’artista che più è stato capace di trasformare l’esperienza della ricerca teatrale degli anni Settanta – Ottanta in un teatro che si potrebbe definire utopico in quanto totalmente fiducioso in un ideale di potenza e di perfezione espressiva della scena. Si è tenuto lontano dalle esperienze straccione e falsamente estrose di molti esponenti, o autoproclamatisi tali, della sperimentazione e ha espresso uno stile originale e inimitabile che ha il suo segreto nella fusione fra un mestiere di rigore ferreo e una creatività imaginifica. Questo gli permette un controllo pressoché assoluto di quanto egli realizza sulla scena, anche le visioni più sorprendenti, e si vorrebbe veramente avere contezza di ciò che lui scarta di quanto “vede” nella sua testa quando prepara uno spettacolo. È chiaro che dalla platea si assiste soltanto a una parte di quel che la sua fantasia contiene perché non tutto può essere esplicitato sulla scena se non osserva le leggi che Sepe si è dato. Si vorrebbe cioè guardare anche l’altro spettacolo, quello non manifestato che cela tutto ciò che è studio di regia e che in un pittore si depositerebbe su personali fogli di disegno senza mai vedere la luce del quadro: il materiale nato vivo e subito morto eppure così importante nel corso dei misteriosi attraversamenti verso l’opera d’arte.
Tanto è evidente l’autonomia teatrale di Sepe che non è neppure necessario, anche se consigliabile, andare a rileggersi prima di assistere alla rappresentazione i due racconti di The dubliners da cui lo spettacolo è tratto, Il giorno dell’edera e I morti. Tutta la messinscena ruota attorno a tre aspetti fondamentali: la sapienza nelle musiche (curate da Harmonia team e Davide Mastrogiovanni) e nelle luci (di Guido Pizzuti); un ensemble di attori – in cui il solo Pino Tufillaro ha un ruolo di narratore solista – che rivela una volta di più, come è consuetudine in Sepe, uno stile teatrale fondato sul collettivo in cui la figura del protagonista è bandita senza però che mai vi sia umiliazione dei singoli interpreti; una scenografia che si contenta in pratica di un solo elemento, un tavolo enorme che può contenere anche ventiquattro persone e occupa buona parte della scena certo non grande del teatro La Comunità. All’inizio ci si chiede come potrà svilupparsi l’azione con un tale ingombro per poi capire che per esempio la scatenata festa di alcol e danze ispirata a I morti si svolge sopra, attorno, forse sotto il tavolo sul quale verranno rovesciati sacchi interi delle famose patate simbolo dell’antica povertà isolana. Sepe non dimentica mai di cosa sta parlando, sta parlando dell’Irlanda del primo Novecento, quindi anche di fame, di lotte di liberazione, di emigrazione. Emozionante la scena in cui tutti i dieci personaggi si precipitano a prendere le valigie e corrono alla stazione a desiderare un treno verso il futuro che invece passa senza fermarsi in un fragore di rotaie cupo e potente e poi sempre più fioco e lontano nella notte brumosa irlandese. Le valigie contengono i vestiti delle speranze, abiti poverelli con cui gli esseri umani rivestono le loro anime.
Ma l’Irlanda di Sepe è un’isola universale, i dublinesi di Joyce siamo noi, solitari morti che camminano, esseri desolati e squalliducci ai quali il regista dona una sorta di vitalità vana e chiusa, abitatori d’un mondo cadaverico agitati a sprazzi da un’allegrezza inutile e infertile. La gioia è disperazione; il rumore, la musica, il ballo vane dichiarazioni contro il silenzio; il prossimo tuo distrazione da ciò che sei; la vita un suicidio sempre differito. Ed è qui che questo pezzo di bravura teatrale non è fine a se stesso, non obbedisce a narcisismi registici e non muore avviluppato nella propria estetica come in un sudario. Sulla tovaglia del tavolo sta un grande mucchio di fiori, colorato, quasi festoso, un mucchio di fiori che sorridono. Viene arrotolata la tovaglia con tutti i fiori dentro, issata sulle spalle degli attori e portata via come una bara. Lo spettacolo è recitato in inglese, chi lo intende capisce, chi non lo intende capisce. Anche le parole sono una dichiarazione vana contro il silenzio.

Marcantonio Lucidi,
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