“Prima di andar via” di Filippo Gili, regia di Francesco Frangipane. Al teatro dell’Orologio di Roma
Amor, ch’a nullo amato la morte perdona
Prima di andar via, al teatro dell’Orologio, è il terzo spettacolo della trilogia composta da Filippo Gili. Ora, e tendendo conto del fatto che si tratta anche qui di un dramma familiare, il rischio di un teatro “cucina e tinello” non sarebbe improbabile. Ma in tutti e tre i testi, seppur con varia fortuna, il tema della morte è sviluppato con una tale capacità di indagine che il pericolo non sussiste. Ne L’ora accanto la storia girava attorno alla possibilità scientifica di resuscitare un padre, non fosse che per un’ora. In Dall’alto di una fredda torre si doveva decidere chi condannare dei genitori malati: ciascuno dei due figli poteva salvarne solo uno attraverso una donazione di cellule staminali ma mentre la sorella era compatibile, il fratello aveva un difetto genetico.
Prima di andar via invece è nel suo intreccio più semplice. Durante una qualunque cena di famiglia, scherzosa, spensierata, uno dei tre figli annuncia all’improvviso il suo prossimo suicidio. La scelta è meditata, la decisione fredda, la sofferenza per la morte della sua donna eccessiva. Il gioco dello spettacolo è osservare cosa succede in un interno familiare di fronte a una simile prospettiva. Si tratta quindi di uno studio sui comportamenti e le emozioni e su come questi interagiscono e si scontrano. Gili pone i due genitori e i tre figli (un fratello e due sorelle) di fronte a un fatto ineluttabile prima che esso succeda e quando ancora, ma soltanto in teoria, potrebbe essere evitato. In una situazione simile, il lavoro degli attori e della regia è sottile e delicato perché devono stare in bilico fra l’esagerazione tragica e un inopportuno distacco. Devono cioè trovare una verità interpretativa alla quale il pubblico nella sua generalità (e genericità) possa aderire. La domanda implicita di questo e dei due drammi precedenti è: se qualcosa di simile succedesse a casa vostra, cosa fareste? L’altro aspetto riguarda ovviamente il rapporto fra amore e morte, connaturato all’essenza stessa dell’Uomo, che il dramma tratta con un certo moderno pragmatismo: individuazione e risoluzione pratica del problema, anche se la soluzione è il suicidio. La regia di Francesco Frangipane chiede quindi una recitazione molto naturalistica e molto attenta ai dettagli alla quale gli attori rispondono con intensità, facilitati in questo da dialoghi ben scritti e da personaggi drammaturgicamente definiti con precisione. Gli interpreti sono Ermanno De Biagi, Filippo Gili, Michela Martini, Aurora Peres, Silvia Benvenuto.
Alla fine della rappresentazione si resta però con una strana sensazione di incompiuto, come se dallo spettacolo fosse deliberatamente stato bandito il fascino. Vi è in tutto ciò una severità espositiva, un rifiuto della malia teatrale, la quale è in buona sostanza la truffa che gli artisti della scena organizzano per il piacere degli spettatori. Il pubblico invece adora essere raggirato, è il segreto del rapporto fra scena e platea. Louis Jouvet, uno dei più importanti artisti di teatro francesi del Novecento, sosteneva che gli attori sono uomini che fingono sapendo di fare sul serio e dicono la verità sapendo di mentire. Se invece dicono la verità sapendo di dire la verità, l’inganno non c’è più, l’inganno che è il palazzo dell’incanto.