“Dall’alto di una fredda torre” di Filippo Gili, regia di Francesco Frangipane. Al teatro dell’Orologio di Roma
Ucciderai il padre o la madre
Quattro persone sedute a una tavola apparecchiata mentre il pubblico prende posto ai due lati dello spazio scenico posto al centro della sala. Dall’alto di una fredda torre incomincia esattamente come il precedente spettacolo L’ora accanto, andato in scena anch’esso al teatro dell’Orologio di Roma. I due testi fanno parte di una “trilogia di mezzanotte” scritta da Filippo Gili e diretta da Francesco Frangipane. Viene il sospetto che si dovrebbe chiamare “trilogia della sala da pranzo”, ma s’aspetterà di vedere il terzo, già previsto in cartellone, che s’intitola Prima di andar via.
Di trilogie ce ne sono parecchie, c’è quella della villeggiatura di Goldoni, la trilogia di teatro nel teatro di Pirandello e c’è la trilogia wagneriana inventata un giorno di tanti anni fa da un ex sovrintendente del teatro dell’Opera di Roma, Gian Paolo Cresci si chiamava, che al consiglio di fare una tetralogia rispose al suo interlocutore che era un’ottima idea perché giusto tre spettacoli gli mancavano per chiudere il cartellone. Questo per dire che una trilogia è opera difficile da abbracciare più per lo spettatore che per l’autore, il quale ha, o dovrebbe avere, le idee chiare sul filo conduttore delle tre opere. Ora dai due spettacoli già visti, il tema sarebbe la morte: ne L’ora accanto si parla della resurrezione di un padre ottenuta con mezzi scientifici; in Dall’alto di una fredda torre il dramma è dato dal fatto che il padre e la madre hanno la stessa malattia rarissima e letale, guaribile solo con una donazione di cellule staminali dei due figli. Il fratello però non può donarea causa di un difetto genetico, la sorella può salvare solo uno dei genitori. Tutto fa pensare che il discorso sia sulla morte – e sul quel che consegue qui, il dramma irrisolvibile della scelta – ma c’è qualcosa che potrebbe rimandare ad altro. A un certo momento, una battuta fa sapere che il numero di esseri umani (che vivono, vivranno o sono vissuti sulla Terra) è di ottanta miliardi. Questa informazione, giusta o falsa che sia, è rintracciabile nelle opere di un singolare signore, Arthur E. Powell (1882 – 1969), un gallese che servì come tenente colonnello nell’esercito americano e che scrisse cinque trattati riassuntivi delle dottrine teosofiche di Helena Petrovna Blavatsky, Charles Webster Leadbeater e Annie Besant. Se si seguisse questo indizio, si potrebbe arguire che non propriamente della morte qui si parla ma del rapporto fra scienze esatte e filosofie occulte, oltre che della responsabilità intesa in senso metafisico, ossia come un principio dell’agire umano che va al di là della vita nella materia e trascende nell’invisibile. Tutto il testo (come d’altronde L’ora accanto) dà l’impressione di celare un discorso che Gili non intende fare esplicitamente, forse perché teme d’essere etichettato come autore per scaffale di supermercato del karma. Oppure perché un contenuto dichiaratamente esoterico finirebbe per alterare la forma drammaturgica al punto da rendere difficile la comunicazione con il pubblico, il quale potrebbe scambiare l’esoterismo per dilettantismo. Al tempo d’oggi si tratta di argomenti delicati, attanagliati come sono dall’inflazione di misteriosofie ed occultismi vari e dal rifiuto dell’intellettualismo occidentale di un pensiero che non rientra nei modelli logico-razionali.
Gili cerca quindi di offrire una tragedia di impianto quasi classico in cui la dottoressa che si occupa del caso si configura come un coro che al pari di quello greco esprime il punto di vista della polis: in ogni caso quando si può salvare una vita umana, lo si deve fare costi quel che costi, anche di fronte all’insopportabile dilemma di due fratelli chiamati a decidere quale dei genitori condannare a morte. Chi buttare dalla torre? Ma i fratelli a un certo momento rifiutano di scegliere e a questo punto il dramma un po’ si ferma e incomincia ad offrire questioni etiche e morali in luogo di azione. Eppure sembra che l’autore senta che la tragedia si è seduta. I reiterati interventi della dottoressa sembrano più volti a convincere il dramma a ripartire che i figli a decidere. Il problema forse sta nel fatto che i genitori vengono trattati come dei vecchietti poco capaci di intendere e volere. Ma sono dei sessantenni sani, almeno fin quando la malattia non si manifesterà, e vivi e forti, sono personaggi insomma che hanno ancora da dire ma l’autore li zittisce tenendoli all’oscuro del loro destino. Il desiderio però era forte di sapere come avrebbero reagito questi due signori, le vittime sacrificali, alla rivelazione di un simile terribile dilemma.
Gli attori lavorano tutti piuttosto bene, secondo una cifra schiettamente naturalistica, ma la regia di Frangipane li immerge in uno spettacolo molto freddo, un rigor mortis pre mortem, che rende loro difficile sviluppare un arco evolutivo dei personaggi. Si capisce che potrebbero fare assai di più ma Michela Martini ed Ermanno De Biagi, la madre e il padre, sono limitati dalla scrittura stessa del dramma che paradossalmente li relega fuori del dramma e possono quindi esprimersi solo tecnicamente in singole scene, costretti a lasciare i loro personaggi alla fine dello spettacolo così come li hanno trovati all’inizio. Vanessa Scalera e Massimiliano Benvenuto interpreti dei figli Elena e Antonio lavorano anch’essi bene e caricano a dovere i caratteri dei personaggi che poi però non riescono a rivelarsi compiutamente perché restano bloccati in una crisi irrisolta. Sicché I due interpreti nel corso della rappresentazione perdono ritmo e tensione e cercano di reagire, soprattutto Scalera a dire il vero, forzando il naturalismo. Brava Aglaia Mora che fa la dottoressa (e costituisce una terza coppia con l’assistente restituito da Matteo Quinzi), ma la regia la vuole fredda a comprova di una rigidità intellettuale e scientifica e lei s’attiene, giustamente, raffrena una sensualità razionale e per così dire infermieristica che potrebbe condizionare oltremodo Antonio e dare tutto un altro colore alla seconda parte del dramma. Perché, bisogna confessarlo, quel che si spera verso la fine è che il giovane finisca nelle braccia della dottoressa (fatto temuto dalla sorella) e che scappino tutt’e due fuori dal testo, lei femmina scienza e lui maschio esoterismo.