“Porcile” di Pier Paolo Pasolini nella regia di Valerio Binasco. Al teatro Vascello di Roma
Con i maiali dentro la testa
Ecco un regista che è riuscito a sfuggire all’autore senza imbastire una messinscena concettuale, o per immagini, o sperimentale, ma tenendosi ben aggrappato al testo. Valerio Binasco ha allestito al Vascello Porcile di Pier Paolo Pasolini concentrando la sua attenzione sul fatto che si tratta in primis di un dramma sul rapporto padre-figlio. È andato insomma a verificare se questa specie di santo laico che è diventato Pasolini può essere considerato un autore di teatro. Infatti è lecito sospettare che il suo mito sia un caso di isteria collettiva di gruppi organizzati di bastonatori intellettuali che si muovono per motivi di interesse clanico. Pasolini rappresenta oggi una buona moneta per comprare consenso e pagare operazioni politiche e pseudoculturali atte alla formazione di aggressive dittature delle minoranze.
Da dentro la ricca famiglia del signor Klotz, un industriale tedesco, e di sua moglie, Binasco estrae l’idea che, in ultima analisi, Pasolini ha scritto un dramma borghese. Si direbbe piuttosto un apologo senza dramma, dove la tensione sta all’interno dei singoli personaggi e ruota intorno alla perversione del figlio Julian. Il giovane non ama gli uomini e le donne ma i maiali e con loro si apparta nel porcile dandosi a pratiche di zooerastia.
In questo dramma-non dramma borghese la situazione è alquanto statica, succedono delle cose senza che nulla evolva e la tragedia finale, Julian mangiato dai maiali, non è conseguenza di una dinamica drammaturgica, ma di un incidente. Pasolini imbroglia le carte, oscilla in continuazione fra i fatti della sua vita (un’autoprofezia tragica ma facile da indovinare, visti luoghi e la frequenza delle sue scorrerie sessuali) e quelli della sua arte; fra la sua protesta politica e ideologica che può portare a suggellare criticamente e superficialmente un parallelismo capitalisti – maiali e la sua estrema vitalità che accelera una deriva personale la cui colpa – colpa in senso cristiano – egli non può attribuire soltanto a se stesso, pena il restarne schiacciato, ma deve riverberarsi sulla collettività.
In Porcile si ritrova per contrasto l’epica pasoliniana del sottoproletariato. La borghesia è talmente riprovevole che con la sua sola esistenza essa giustifica la cifra di Pasolini in opere precedenti a questa, ossia ossia una sorta di arcadia delle borgate, come nel romanzo Una vita violenta, o nell’episodio cinematografico de La ricotta e persino nel Vangelo secondo Matteo. Porcile ha l’aria di essere un esercizio dimostrativo che Pasolini compie per fare vedere quanto aveva avuto ragione, ma alla fine sembra la stanza mentale di un romantico decadente inzeppata di roba in cui Julian nel testo originale, in questo punto opportunamente tagliato da Binasco, incontra in una specie di sogno il filosofo Spinoza che lo esorta a vincere il suo amore per i maiali. È una trovata che non sarebbe stata consentita a nessuno, salvo a un profeta crocifisso e glorificato dall’agiografia pubblica.
Quando Herdhitze, un ex assassino nazista, si presenta a trattare con Klotz, del quale è rivale in affari, la questione diventa se è più grave avere un figlio che va con i maiali o avere partecipato allo sterminio degli ebrei. Questa però è un’insopportabile bestemmia. Pasolini, almeno nel caso di questo testo, sembra una mente confusa dallo sforzo di confermarsi un grande intellettuale attraverso l’esplicitazione di un pensiero che si vuole originale e che si è invece intorcinato in questa sua arcadia pecoreccia, scatologica, stavolta usata col fine di affermare la natura escrementizia della borghesia. Operazione facilissima all’epoca, nel ’66 circa quando fu scritto Porcile, se applicata alla Germania: la guerra era finita da appena vent’anni, meno di quanti ne corrono fra oggi e la caduta del Muro di Berlino, e l’immane vergogna su quel popolo integralmente complice della barbarie nazista quando non fanaticamente partecipe, era giustamente ben presente agli occhi degli europei (assai più di oggi), al punto che in Italia, per esempio, c’era gente che si rifiutava di comprare macchine tedesche.
Tuttavia Binasco, e qui sta il suo modo di sfuggire a Pasolini, si è concentrato sui rapporti fra i personaggi, sulla storia di Julian, sull’incomprensione fra un padre e un figlio, dove il primo è un pover’uomo che non capisce e il secondo un disadattato. Importanti qui sono gli attori, tutti bravi, e alcuni segni registici: il grosso crocifisso che la madre porta sempre al collo, un monito dondolante; le luci molto forti dai colori chiari a cui rispondono per contrasto o per armonia i costumi; l’impeccabilità formale del cameriere che controbilancia i disordini etici e sessuali in seno alla famiglia. La scena è pulita, spoglia, razionale, così le macchie degli uomini risaltano e il luridume delle loro menti si fa netto. La fidanzata di Julian, Ida, è Elisa Cecilia Langone che sembra uscita a tratti da un fumetto dei Peanuts, delicata, bambina però adulta, è lei l’unico segno di purezza, di aria fresca, di futuro. Il Julian di Francesco Borchi è mesto, depresso, cela il suo segreto ma lascia sentire gli schianti della sua anima mentre il padre nevrastenico, strepitante, ridicolo. stralunato – l’ottimo Mauro Malinverno – gli si para davanti come un Louis de Funès cascato sulla tomba di Yorick. Impeccabilmente freddo, cinico, carnivoro è Herdhitze affidato a Fulvio Cauteruccio, mentre il ruolo minore, ma necessario a certi equilibri della regia, del cameriere è ben costruito da Pietro D’Elia. In scena, oltre a Franco Ravera (Hans – Guenther) e Fabio Mascagni (Maracchione). anche Valentina Banci che fa una madre sensuale, carnale e calibrata fino al punto limite oltre il quale la vistosa croce che porta al collo potrebbe mettersi a sanguinare.