“Come diventare ricchi e famosi da un momento all’altro” drammaturgia e regia di Emanuele Aldrovandi. Con Serena De Siena, Tomas Leardini, Luca Mammoli, Silvia Valsesia. Allo Spazio Diamante di Roma

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Mamma, mormora la bambina, il mio successo per te

Come diventare ricchi e famosi da un momento all’altro è un dramma scritto e diretto da Emanuele Aldrovandi che non parla di crisi di coppia, di crisi della famiglia, di crisi dell’Io, non si svolge in cucina o nel tinello. È una étude de moeurs, uno studio di costumi originale che esprime una critica non semplice da rendere drammaturgicamente: la mania, la frenesia, senza raziocinio e pudore, dei genitori per il successo dei figli. Da ottenere con cattiveria, rancore sociale e ricatto.
Marta madre di Emma, persegue a qualsiasi prezzo l’affermazione artistica della figlia, bambina di soli sei anni che avrebbe un talento per la pittura. Con un sotterfugio, Marta riesce ad avvicinare Chiara, attrice famosa, e invitarla a casa. Ferdinando, il compagno di Marta, di mestiere fa l’apicultore, ottima giustificazione per una scenografia semplice ed efficace fatta di pannelli ricoperti di celle d’alveare che servono da quinte e da porte. Ma è anche il segno del personaggio: nella percezione comune un uomo che si occupa di api non può essere un cattivo, difatti Ferdinando partecipa agli eventi con riluttanza, con un racimolo di morale e senso di colpa. Il suo ruolo è soprattutto di osservatore e commentatore, il dramma è la sua memoria dei fatti, quindi l’autore lo pone come soggetto critico parzialmente distante dall’azione. Procedura di derivazione brechtiana però senza Verfremdung, straniamento, anzi la recitazione degli attori è naturalistica, in contrasto (ma non in contraddizione) con la condizione del ricordo che stempera il reale nella lontananza temporale e lo affioca nell’irrealtà. Il finale, da non rivelare, sale a un tragico inverosimile se non fosse per la sua carica grottesca.
Una tecnica drammaturgica interessante messa al servizio di uno studio di costumi può dare risultati apprezzabili, intendendo godimento nella rappresentazione etimologica dell’uomo, se poi i personaggi vengono opportunamente osservati come insetti. Va offerta loro una specie di finta libertà come in un barattolo di vetro nel quale possano muoversi senza uscire. Non si deve sentire la mano dell’autore e regista che li governa. I personaggi messi in scena da Aldrovandi possiedono proprio quell’autenticità che mette il dramma al riparo dal pericolo della retorica pedagogica, del messaggio “Adesso te lo spiego io chi sei, ipocrita spettatore”.
Marta, interpretata da Serena De Siena, incarna benissimo la madre snaturata che si concederebbe al diavolo e gli darebbe anche la figlia pur di scaraventarla nel participio passato del verbo succedere, il successo. È il prototipo delle genitrici mostruose in cerca di riscatto personale attraverso la progenie che infestano le anticamere dei provini televisivi, i corridoi dei reality canori, le palestre della ginnastica artistica o le piste di pattinaggio su ghiaccio. Una figura che evolve da opportunista avida e lecchina impegnata ad arruffianarsi l’attrice famosa a feroce ricattatrice. Personaggio ripugnante che l’attrice non cerca di smussare, arrotondare, salvo quando dice che vuole per la figlia un destino diverso dal suo. Se lo carica così com’è, odioso e criminale per disperazione, e lo porta fino in fondo con coerenza interpretativa in modo da spiattellarlo sulla scena ben bene come un prodotto moralmente escrementizio di una società fondata sul cesso in luogo del successo. A nulla per questa donna valgono il talento, il lavoro, il sacrificio. Solo la raccomandazione, il favoritismo, il marketing contano. Marta è certa che l’attrice famosa è diventata tale con questi metodi. Figuriamoci se il successo è farina del sacco suo.
L’attrice famosa, Chiara, è affidata a Silvia Valsesia che ha il physique du rôle, slanciata, algida, altera ma sempre più stupita, angosciata, sopraffatta dalla situazione. Qui l’autore opera un doppio ribaltamento: una persona di successo si rivela una persona normale coinvolta in una dinamica anormale. Valsesia interpreta con naturalezza la parte di diva sconvolta da un grande male del nostri giorni, l’epilessia dell’ambizione.
Tomas Leardini che fa Carlo, cognato di Marta, ha uno stile da caratterista e rappresenta una specie di scherzo di Aldrovandi: è uno scacchista professionista che partecipa alle competizioni ma proferisce delle idiozie enormi e costruisce con rovesciamenti della logica dei falsi ragionamenti fatti passare per verità. Ricorda nel migliore dei casi l’aforisma di Ennio Flaiano “Oggi anche il cretino è specializzato”, nel peggiore uno di quei tanti, troppi politici e opinionisti da talk-show che stanno a mezza strada fra la malafede delinquenziale e l’inferiorità mentale. Leardini arriva a momenti  surreali e farseschi che da un lato alleggeriscono il dramma, dall’altro rendono più acuta la percezione della disgrazia che soggetti come Carlo rappresentano per il consesso umano.
Luca Mammoli ha una parte difficile perché Ferdinando c’è e non c’è, sta in parte fuori dell’azione e in parte dentro. L’attore si destreggia che bene, si circonfonde d’una malinconia generata dalla consapevolezza e dall’imbarazzo. E dà consistenza teatrale a un personaggio che, pur restando tale, porta in scena lo sguardo dell’autore – regista e fors’anche la sua speranza.

Marcantonio Lucidi,
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