“Guerra e pace” di Lev Tolstoj, regia di Luca De Fusco. Interpreti, fra gli altri, Pamela Villoresi, Giacinto Palmarini, Paolo Serra. All’Argentina di Roma

Guerra e Pace

Dov’è la grande Madre Russia?

Dov’è Nataša Rostova, bella, giovane, così piena di vita e di gioia? Sta nello spettacolo ma senza la sua “chiaroveggenza del cuore”, come dice Pierre Bezuchov, che “sostituisce in lei l’intelligenza”. E dove Mar’ja Nikolàevna Bolkonskaja – figlia del principe Nikolaj Bolkonskij – dal sorriso timido? Eccola sulla scena del teatro Argentina di Roma ma i “suoi bellissimi occhi irradianti” e la sua statura spirituale sono rimasti nelle pagine di Lev Tolstoj. Si può andare avanti così a chiedersi dell’odioso, meschino principe Vasilij Sergeevič Kuragin e della sua stupenda, immorale, vana, figlia Helena, che sposa il limpido, sognante e inetto Pierre il quale, diretto da un destino misterioso, vuole assassinare Napoleone e viene fatto prigioniero di guerra. Mancano tutti gli innumerevoli personaggi di questo romanzo immenso, il più grande forse della letteratura russa e uno dei più colossali di quella mondiale. Assenti coloro che non appaiono in scena e anche i presenti. Assenti i misteri: dell’adolescenza, dell’assoluto, della fatalità, della vita insomma.
Il regista Luca De Fusco ha tentato di allestire un adattamento teatrale da lui stesso scritto assieme a Gianni Garrera di Guerra e pace. Un’impresa da gigante che deve salire sulle spalle di un gigante. E superare un ostacolo quasi insormontabile determinato dalla diversità dei due mezzi di comunicazione: in un romanzo l’azione si svolge sulla scena della mente, in sala sulla scena del teatro. Il problema non riguarda la trasformazione della letteratura in dialogo ma della rappresentazione mentale in teatrale. E siccome l’azione è debole, le due ore e mezza dello spettacolo trascorrono con la sensazione di fatica che prende l’osservatore quando da un rifugio d’alta quota si guarda da lontano un alpinista immobile sulla parete della montagna. Viene spontaneo chiedersi: perché sfidare il dio del romanzo? Battute come “Gli uomini non riescono a vivere senza la guerra”, oppure “Sono stanco della pace”, non esprimono teatralmente il senso della guerra.
De Fusco ha affidato al generale Kutuzov il compito di rappresentare lo scontro bellico con Napoleone. Ma Kutuzov è un personaggio di straordinario rilievo, sia storicamente che nel romanzo. In Tolstoj rappresenta l’elemento mistico del popolo russo, la sua infinita pazienza e la sua sostanziale innocenza che si ritrovano anche in certi racconti brevi di Cechov, la rassegnazione secolare donde viene la certezza che prima o poi il Bonaparte si esaurirà nell’immensità della steppa bianca. Tema enorme epperò solo uno dei tanti che il romanzo di Tolstoj contiene.
Viene la vertigine al solo ripensare per sommi capi all’ampiezza del quadro, alla grandiosità epica, di un’epica realistica, alle ragioni che fanno di Guerra e pace un capolavoro: il principio morale e il discorso filosofico; la componente universale del pensiero tolstojano sulla Storia e l’elemento russo, ossia lo spirito popolare slavo. In scena, non c’è, neanche idealmente, Platon Karataev che la sera prega così: “Signore, fammi dormire come una pietra e alzare come il pane”. Non può esserci il soldato Platon perché De Fusco non ha affrontato la montagna di Tolstoj, e neanche poteva: è chiaro che nella vastità di Guerra e pace il problema della scelta è ineludibile ma per la trasposizione teatrale va trovata una sineddoche, una parte per il tutto. Il regista ha deciso che le questioni matrimoniali, gli intrighi e le passioni amorose fossero una sintesi, come se avesse da allestire Le relazioni pericolose di Choderlos de Laclos, ridotte però alle relazioni e senza i pericoli. Si dicono cose sulla speranza e la felicità, la vita, la morte. Francobolli dal mondo del pensiero tolstojano. Fatte le debite proporzioni, lo spettacolo, che è scenograficamente imponente, ha avuto lo stesso destino della Grande Armée di Napoleone, gelare in mezzo alla Madre Russia di Tolstoj senza trovare un riparo adeguato nell’estesa mente dell’autore.
Nell’inverno russo gela anche la recitazione degli interpreti, non c’è calore, non c’è fuoco nei tiepidi amori asportati dal romanzo e nella lunga processione di scene come carrozze di treno. Escono due attori, entrano due attori, parlano, escono i due attori, ne entra uno, poi un altro, riescono, rientrano. Qualcuno si sdraia sulla scalinata al centro del palco, qualcun altro vi muore a testa in giù, bisogna dare un po’ di movimento, bisogna dare un po’ di effetto. Tutti da citare gli interpreti perché in un simile contesto registico e drammaturgico poco potevano oltre il loro mestiere: Pamela Villoresi, Federico Vanni, Paolo Serra, Giacinto Palmarini, Alessandra Pacifico Griffini, Raffaele Esposito, Francesco Biscione, Eleonora De Luca, Mersilia Sokoli, Lucia Cammalleri.
Il resto è impeccabile: scene e costumi bellissimi di Marta Crisolini Malatesta, luci perfette di Gigi Saccomandi, video di Alessandro Papa.

Marcantonio Lucidi,
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