“Re Lear” di William Shakespeare, regia di Gabriele Lavia anche interprete assieme a Luca Lazzareschi. Al teatro Argentina di Roma

Re Lear Lavia

Alla radice degli uomini

Di certo non sarebbe piaciuto agli illuministi del Settecento il Re Lear diretto e interpretato all’Argentina di Roma da Gabriele Lavia nel ruolo del titolo. Così barbarico, notturno, fosco, così tragico e shakespeariano da giungere fino alle radici contorte della natura umana, nel pozzo oscuro dell’uomo in sé, dell’uomo così com’è, senza la consolatoria mano della dea Ragione a tirarlo fuori dalla melma degli istinti e delle passioni. “L’uomo non è dunque altro che questo?… L’uomo non conciato non è nulla di più che un povero, ignudo, forcuto animale come sei tu.” (Atto III, scena IV).
Siccome Lavia persegue la sua linea estetica e poetica con la forza e la determinazione di radici d’albero che penetrano il sottosuolo, quando Lear si china sul cadavere di Cordelia, si vede chiaramente alla nera luce della morte che in terra non ci sono cieli: “Urlate, urlate, urlate, urlate! Oh, siete uomini di pietra! Se io avessi le vostre lingue e i vostri occhi, vorrei adoperarli in modo, che la volta del cielo si dovrebbe squarciare. Essa è andata via per sempre. Io lo so quando uno è morto, e quando vive ancora: lei è morta come terra!”. (Atto V, scena III). Re Lear è una tragedia di terra e pietra. Il teatro è un dono che gli uomini fanno a se stessi per ridere e per piangere, ridere della loro minuscola vita nell’esagerata vastità del Creato, piangere per la loro minuscola vita nell’incomprensibile vastità del Creato.
La bellezza di questo spettacolo sta nell’abbandono. Lavia si fida ciecamente di Shakespeare, come l’infante si getta a capofitto nel vuoto con la certezza che il padre lo prenderà al volo. E Wlliam è il miglior padre possibile per i giochi teatrali. L’intensità della rappresentazione è negli occhi di questo grande attore così classico e maestoso ma non retorico, nei suoi gesti teatrali senza affettazione, nella sua voce alta ma non magniloquente. Si muove in continuazione e non si agita mai, la parola è sempre perfettamente scandita fino all’ultima sillaba eppure senza ampollosità, ferma e mutevole. Naturale e piena è l’emissione vocale, il suo farsi sentire, il farsi capire; la tecnica perfetta per Lavia è nell’ordine delle cose, nello statuto del mestiere.
L’arte è tecnica più elettricità, ma in certi momenti a vederlo ed ascoltarlo si tralascia l’elettricità, l’emozione generata dall’interpretazione, perché la recitazione di questo magnifico interprete è una lezione su come si sta in scena, un insegnamento spontaneo non pensato, non cercato. Come Shakespeare giunge alla sintesi dell’uomo in sé, così Lavia perviene all’essenza dell’attore. Si sente arrivare una nostalgia preventiva, domani, dopodomani, alla visione dello spettacolo di qualcun altro lontano dal miracolo del rigore, non uso alla costruzione d’uno scheletro di ferro da rivestire di significato. Il pericolo si fa grande stavolta di convincersi della sinonimia tra perfezione e classicità, bellezza e accademia. Ma Lavia non tende trappole neanche involontarie al pubblico, tutta la sua azione, il suo salire e scendere dalla furia alla disperazione, dalla pazzia alla consapevolezza, la fatica fisica, l’andare e venire sul palcoscenico, da destra a sinistra, dal fondo scena al boccascena, questa disciplina fisica e mentale, non sorgono da un desiderio di dimostrazione, da un perfezionismo vanitoso, ma dalla necessità poetica di trasmettere la compressione dell’anima che passa per la cruna d’ago d’una trasformazione. Si tratta di un ottimismo straordinario, d’una fiducia incrollabile non solo in Shakespeare ma negli esseri umani, della certezza che gli spettatori capiranno, ognuno a modo suo, nell’osservazione e nel ragionamento o nella contemplazione e nell’emozione. O persino nell’inconsapevolezza di avere capito. Grande teatro che tocca l’erotismo dello spirito.
Nessun tempo morto nella regia, nulla di superfluo, di superficiale, di arzigogolato; si notano certe linee nel movimento degli attori che sempre si fondano su una ragione e anche i dettagli prossemici – come Lear prende le mani alla figlia traditrice Regan o come il duca di Albany mantiene la distanza da sua moglie Goneril quando non è d’accordo con lei – sono raffinatezze non offerte in quanto tali ma come la normalità del fare teatro, la struttura dell’artigianato che sostiene l’opera d’arte.
In compagnia con Lavia c’è un bel nome d’attore, Luca Lazzareschi nel ruolo di Gloucester, protagonista della trama secondaria, la quale avrebbe potuto essere la tragedia a sé stante d’un conte reso cieco se il genio di Shakespeare non l’avesse ancorata alla storia d’un re divenuto “uno zero, senza una cifra accanto”, dice il fool. Il Gloucester di Lazzareschi esprime nella sua condizione disperata una rassegnazione che contrasta con i furori di Lear e muove teatralmente il gioco dei caratteri e le differenze temperamentali. Si intensifica così il senso della sconfitta che attraversa la tragedia. La sconfitta è la cruna d’ago, unica speranza della bestia umana di divenire essere umano se non si è di natura una Cordelia la cui assenza fisica in gran parte del dramma si fa presenza morale sopra tutto il dramma. Ha una levità la sua interprete, Eleonora Bernazza, che onora il personaggio. Tutta la compagnia offre un mestiere generato dal rigore: le altre due figlie del re, le infide Goneril e Regan, sono affidate a Federica Di Martino e Silvia Siravo; Giovanni Arezzo e Jacopo Venturiero interpretano il duca di Cornovaglia e il duca di Albany (in cartellone nominato Scozia, senza errore perché Albany è il nome antico di parte della Scozia). Il fool di Andrea Nicolini possiede la calma del matto saggio. Edmund, figlio della mano sinistra di Gloucester, è Ian Gualdani mentre il figlio legittimo Edgar è Giuseppe Benvegna. Mauro Mandolini fa Kent, Beatrice Ceccherini Oswald (il servo di Goneril), Gianluca Scaccia il re di Francia, Jacopo Carta il duca di Borgogna, Lorenzo Volpe un servo.
I costumi di Andrea Viotti sono semplicemente bellissimi; le luci di Giuseppe Filipponio con i chiaroscuri che ombrano la scena eppure tutto fanno vedere, sono calibratissime; le scenografie di Alessandro Camera evocano il palcoscenico di un teatro disastrato con a sinistra un piccolo teatrino di bambini: è il posto dove siamo noi tutti. “Totus mundus agit histrionem” era il motto del Globe Theatre, “Tutto il mondo recita la parte di un attore”, o meglio “fa il buffone”, il fool.

Marcantonio Lucidi,
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