“Bidibibodibiboo” scritto e diretto da Francesco Alberici in scena con Maria Ariis, Salvatore Aronica, Andrea Narsi, Daniele Turconi. Alla Sala Umberto di Roma
Fantozzi è vivo ma depresso
Bisogna fare copia-incolla dal comunicato stampa per riportare il titolo dello spettacolo scritto e diretto alla Sala Umberto di Roma da Francesco Alberici, Bidibibodibiboo. È ripreso da un’opera del ’96 di Maurizio Cattelan, uno scoiattolo suicida riverso su un tavolo di formica gialla in una cucina anni Cinquanta. Alla Biennale di Venezia quest’anno finalmente sono tornati i pittori figurativi, una buona ragione per stare lontani dai Cip e Ciop dell’arte.
Francesco Alberici ha vinto nel 2021 il premio Ubu come migliore attore/performer under 35. Inoltre Bididibo eccetera è stato tre anni fa finalista al premio Riccione per il teatro. I due premi, in cui ha imperato a suo tempo un critico teatrale settario come Franco Quadri, sono tutt’ora luoghi frequentati da fanti di quadri. Un Cattelan e due quadristi fanno un quadretto.
Ci si aspetta che un autore – attore – performer – regista apprezzato dalla tribù teatrale dei bobibo, borghesi bigotti bolscevichi, metta in scena un certo tipo di spettacolo che si potrebbe definire sperimentazione del ceto tedio o avanguardia conservatrice. Invece quest’operina agra come la vita contemporanea e aspra come il capitalismo, riserva qualche sorpresa. La situazione rappresenta uno dei tanti inferni in terra che gli esseri umani adorano ideare e realizzare. Il sadomasochismo della specie è raccontato attraverso la storia del dipendente di una multinazionale che subisce una serie di angherie. Poco adatto ai criteri psicologici e comportamentali richiesti da una struttura dittatoriale e stritolatrice, Pietro subisce anche la pavidità complice e ruffiana dei colleghi leccapiedi del potere. La schiavitù è stata abolita ma non la servitù. Nulla di nuovo, il più bravo a rappresentare il lager aziendalista è stato cinquant’anni fa Paolo Villaggio, però la situazione con il passar del tempo si è fatta tragica. Oppure il senso del comico si è rarefatto. Fantozzi è vivo ma è così morto che non fa più ridere.
Il fratello di Pietro, Andrea, fa il drammaturgo e decide di mettere in scena la vicenda. I temi sono la vergogna, la marginalità, la precarietà, l’alienazione, l’espulsione dal sistema. E ovviamente la competitività, questo olio di ricino da ingoiare per trasformarsi in una rotella ben lubrificata del capitalismo. Il pregio dello spettacolo è di offrire il discorso al gran numero di giovani presenti in sala, di mostrare loro cosa si nasconde sotto il management, la gerarchia, la carriera, la ferocia delle organizzazioni multinazionali che hanno approfittato della globalizzazione per imporre mondialmente un moderno sistema antropofago, una macchina standardizzata del servaggio e del vampirismo che succhia il sangue della gente con i morsi della rivalità e della concorrenza.
Di fronte a un teatro di denuncia espresso senza soverchia pedanteria, passano in secondo piano varie pinzillacchere da scena del diversismo (facciamolo diverso) e dello sforzismo (sforziamoci di farlo diverso) come l’annuncio iniziale alla platea dello scambio di ruoli fra fratelli in cui Andrea interpreterà Pietro e viceversa, trovata inutile per l’azione; oppure l’abbozzo di teatro nel teatro perché, scrive Alberici in una nota, “ci tenevo a ragionare sulla delicata operazione che porta a trasformare un vissuto reale in arte”. I registi non dovrebbero scrivere le note di regia.
In scena assieme a Francesco Alberici, Maria Ariis, Salvatore Aronica, Andrea Narsi e Daniele Turconi formano una buona compagnia di attori che si spera di rivedere ancora.