“La voce umana” di Jean Cocteau, con Siddhartha Prestinari diretta da Rosario Tronnolone. Al teatro Trastevere di Roma
Un manuale scenico di tecnica della recitazione
Esiste una registrazione su disco de La Voce umana interpretata da Simone Signoret dolce, profonda, estremamente femminile e disperata. Quando dice “Je t’aime, je t’aime, je t’aime” spacca il cuore. Su internet si trova anche Berthe Bovy, interprete prima e di grande successo nel 1930 del monologo di Jean Cocteau. Più energica, più polemica, altrettanto femminile e disperata. L’interpretazione di Ingrid Bergman è emozionante non fosse che per lo struggimento provocato dall’idea che una creatura di tale incredibile fascino possa essere lasciata. Attrici italiane magnifiche di questo capolavoro sono state Anna Magnani ovviamente nella versione cinematografica del ’47 di Roberto Rossellini, Adriana Asti Anna Proclemer. Ma sono molte, Piera Degli Esposti, Marina Bonfigli, Anna Mazzamauro ne dette una versione parossistica, Nella Maria Bonora fu esaltata dalle cronache del 1950 per la sua interpretazione radiofonica. E in tanti hanno ricamato sul capolavoro di Cocteau: oltre all’opera del compositore Francis Poulenc, il cortometraggio di Pedro Almodóvar The Human Voice interpretato da Tilda Swinton; il film di Edoardo Ponti che dirige sua madre Sophia Loren e molto altro liberamente ispirato.
Si può scrivere un trattato di recitazione basato solo sulle interpretazioni di questo difficilissimo monologo telefonico in cui una donna viene lasciata dal suo amante. Se un capitolo del saggio fosse dedicato alla prova di Siddhartha Prestinari al teatro Trastevere di Roma, si potrebbe incominciare scrivendo che nessun movimento, nessun tono dell’attrice in scena pare affidato al caso. Tutto è studiatissimo, ogni posizione, ogni gesto, i movimenti in aria delle gambe e dei piedi quando si sdraia a pancia sotto, quando si siede e volta la schiena. Naturalmente la virtù sta nel fare apparire spontaneo ciò che invece è accuratamente calcolato. E caldo ciò che invece è freddo. Prestinari pratica un naturalismo come atto di sorveglianza stretta della propria recitazione. Ad osservarla con attenzione, con lo stesso spirito analitico che si suppone iscritto nel rigore e nella precisione dell’attrice, si delinea uno schema: a certi movimenti corrispondono determinate emozioni, a un gesto un impulso, a un cambio di ritmo dell’eloquio un turbamento. Il reiterato sistemarsi i capelli non è dell’attrice ma del personaggio che cerca di volta in volta di ricomporsi al fine di negare inutilmente la progressione di una situazione sempre più tormentosa. Il passaggio da una mano all’altra della cornetta segue le angoscianti interruzioni della telefonata con l’amante causate dal cattivo servizio telefonico di Parigi negli anni in cui Cocteau scrive. Le pause, le variazioni ritmiche e tonali, la gesticolazione, la mimica compongono un equipaggiamento recitativo selezionato per rispondere alle molteplici necessità emozionali della donna al telefono: dolcezza, rabbia, tenerezza, disappunto, impazienza, esasperazione, contentezza, sofferenza, e sentimenti più complessi, amore, passione, speranza, paura, disperazione.
Telefonare è una prova di recitazione difficile non solo per i tempi di battuta che devono rendere credibile la presenza dell’interlocutore invisibile (anche lui nella finzione ha tempi di battuta), ma perché lo spettatore sente solo metà della conversazione e quanto viene detto dall’altro capo del filo va restituito proprio dal comportamento e dalle manifestazioni dell’unico personaggio. Si tratta di un flusso di emozioni e sentimenti che si intrecciano, si sovrappongono, si contraddicono. È un’esposizione dell’anima dolente.
In un certo modo, la famosa quarta parete qui è doppia: quella immaginaria, tanto amata dall’estetica naturalistica, che corrisponde al boccascena e separa il pubblico dall’azione teatrale; e la seconda, altrettanto operativa, costituita dal telefono che addirittura proietta il personaggio in una situazione per metà esterna alla scena e invisibile dalla platea. Non ci sono molti modi per un’interprete di risolvere lo spettacolo ed è anche per questo che La voce umana è una delle prove d’attrice più difficili del Novecento, pari a Giorni felici di Samuel Beckett: si dev’essere semplicemente molto bravi quale che sia lo stile della recitazione, naturalistica come per la solista in scena (e studiata battuta dopo battuta), oppure antinaturalistica, artaudiana per esempio (e studiata battuta dopo battuta). Per un’artista che sa quel che fa il testo è pieno di occasioni che all’istante volgono in trappole per chi difetta di tecnica e di rigore. Ma anche di sensibilità.
L’interpretazione di Prestinari, diretta da Rosario Tronnolone, può essere percepita come eccessivamente tecnica, opposta a quella di Simone Signoret sotto l’aspetto dell’amurusanza, bella parola siciliana che indica una piegatura affettuosa dell’anima verso la gentilezza, la dolcezza. Tuttavia di questa prova va riconosciuto il valore perché l’attrice non manca un passaggio, non sbaglia un tono e l’unico aspetto non condivisibile è la sua noncuranza, qualche volta, a spingere la voce, a usare il diaframma, secondo l’idea che la battuta va detta come in camera da letto. Molti applausi meritati l’altra sera alla seconda replica.