“Chicchignola” di Ettore Petrolini, regia di Massimo Venturiello anche in scena assieme a Maria Letizia Gorga, Franco Mannella, Claudia Portale e Carlotta Proietti. Alla Sala Umberto di Roma

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Il romano che si fece parigino

Chicchignola di Ettore Petrolini diretto e interpretato nel ruolo del titolo da Massimo Venturiello è un allestimento (alla Sala Umberto di Roma) che dimostra fino a che punto può essere imprevedibile l’arte di un uomo di teatro. Fino a sovvertire qualsiasi ipotesi desunta dalla cattiva abitudine di farsi un’idea d’uno spettacolo partendo dalle prime scene. Bisogna sapere aspettare. A rigor di logica, un interprete come Venturiello, alto, elegante, non dà idea di essere in parte nel ruolo d’un popolano quirite venditore ambulante di palloncini e giocattoli ammassati in un carretto. Ci si aspetta dall’interprete del personaggio petroliniano un caricamento caustico della battuta, un cinismo tipicamente romano soprastante una radicale mancanza di riguardo per tutto e tutti, uomini, bestie e dèi, a scongiurare le gattate, i lanci di felini morti in palcoscenico da parte della “belva accovacciata in platea”, come Petrolini chiamava il pubblico.  Oggi questi costumi crudeli non s’usano più per fortuna degli artisti e soprattutto dei mici, però resta l’aspettativa, in un caso come Chicchignola, d’una comicità da restituire aspra, beffarda. Tuttavia ad un certo momento si capisce che Venturiello è lontano, o vuole stare discosto, da una romanità feroce o forse è meglio dire dal luogo comune dello spirito capitolino. Ma il teatro è un gran divoratore di succulenti luoghi comuni e par fin dall’inizio dello spettacolo che il prim’attore stia per mancare la commedia da come ingentilisce le sue battute, le arrotonda, le scevera dalla cattiveria e nella sua qualità di regista altrettanto desidera dagli altri attori Maria Letizia Gorga, Franco Mannella, Claudia Portale e Carlotta Proietti. E ci si chiede: ma come la vuol fare Venturiello questa storiaccia di plebe e corna romane? Non si sta mica nei salotti e nelle alcove Belle Époque del teatro di boulevard parigino (le cui commedie erano peraltro chiamate pochade, non proprio un complimento, da pocher, fare uno schizzo, insomma farse, buffonate).
A mano a mano che la rappresentazione avanza, l’intento si fa chiaro: evitare di cadere nell’inferno dialettale della farsa romanesca  e al contrario mostrare che Chicchignola è un raffinato studio di caratteri, una commedia alla Molière, il quale a volte non si tirava certo indietro quanto a grevità ma sapeva acchiappare al volo l’essenza dell’uomo e imprigionarla nel suo teatro. La moglie del protagonista, Eugenia va a letto con Egisto, proprietario di una salsamenteria, il quale convive con Marcella. Chicchignola però sedurrà prima Lalletta, migliore amica di sua moglie, e poi la stessa Marcella. Tuttavia la sua non è una vendetta, bensì una lezione: le anime limpide non sono citrulle.
La regia vuole classicizzare Petrolini quindi di necessità deve tirare fuori il venditore ambulante di giocattoli da una condizione di macchietta per elevarlo allo status di personaggio, innalzare il suo candore facile da scambiare per stupidità e da sbeffeggiare a una dimensione morale di onestà e umanità. Chicchignola che annuncia di andare a pescare dice: “Io l’amo non ce lo metto mai; è il temperamento mio: non ingannare mai nessuno. Se il pesce vo’ abboccà, abbocca, se no chi se ne frega!”.
È un allestimento (con scene di Alessandro Chiti) che rende giustizia a Petrolini e spiega il suo rifiuto d’essere scaraventato nella gattabuia dei teatranti dialettali, al pari del genovese Gilberto Govi o del catanese Angelo Musco e ancora del più giovane romano Checco Durante che con lui incominciò e mai si elevò sopra le rive del Tevere. Petrolini invece ambiva a ciò che gli spettava, onori internazionali (ottenuti in Sud America, in Europa, in Nord Africa) e persino nazionali: speranza enorme fino all’assurdo questa d’un riconoscimento in vita del suo genio da parte degli italiani sempre pronti a denigrarsi fra loro.
Nella riduzione di Venturiello, lo spettacolo perde qualcosa in spirito popolaresco ma tanto guadagna in umorismo e in raffinatezza stilistica. Indubbiamente grazie anche al gruppo di attori che lavora pienamente nella linea estetica e poetica voluta dal capocomico. Risaltano allora alcune sottigliezze altrimenti nascoste sotto lo sghignazzo. Una per tutte: al terzo atto arriva un’idea sofisticata di Petrolini, apparentemente digressiva, non utile allo spettacolo, ossia mettere in scena il ritratto disegnato da Chicchignola di una donna, o di una bambola, dagli occhi troppo grandi. Venturiello evita di tagliare perché la battuta che segue è interessante: “Hai ragione, ma me li hanno ordinati cosi (gli occhi, ndr) e cosi li ho fatti. Persuaditi che il novanta per cento della gente che compra ha il gusto antiartistico”. È direttamente Petrolini a parlare al pubblico del suo tempo attraverso il personaggio ed è il capocomico che attraverso Petrolini ripete il concetto alla platea di oggi. Il gusto della gente permane antiartistico. Probabilmente l’intensità dello spettacolo è proporzionale alla considerazione che Venturiello ha per l’autore e al suo piacere evidente di rappresentarlo. E siccome il regista dispone in compagnia dei talenti canori delle tre interpreti, giustamente infila nello spettacolo alcune canzoni romane (riarrangiate da Mariano Bellopede): Nun me scordo mai di Adolfo Giaquinto cantata da Carlotta Proietti, Notte della dorcezza di Romolo Balzani interpretata da Claudia Portale, Stornello dell’estate di Gabriella Ferri affidato a Maria Letizia Gorga. Teopompo è canzone buffa di Venturiello e Tosca su un uomo che inverte le parole. Dentro la Petrolière ci son dei Molierini o dentro Petrolini c’è un po’ di Molière?

Marcantonio Lucidi,
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