“La ragazza sul divano” di Jon Fosse, regia di Valerio Binasco, con Pamela Villoresi e Isabella Ferrari. Al teatro Vascello di Roma
La parola è no
Mettere in scena un testo di Jon Fosse come La ragazza sul divano (al teatro Vascello di Roma) non è semplice ma non è semplice neppure guardare l’allestimento, salvo naturalmente che si voglia fruire soltanto dello spettacolo in quanto tale, senza approfondire le scelte e le ragioni di una regia. Per esempio: Valerio Binasco ha affidato a Pamela Villoresi il ruolo della Donna, una signora oltre la mezza età che fa la pittrice e dipinge “quadri orrendi – dice – che non sono mai piaciuti a nessuno, nemmeno a mio marito”. L’attrice è bravissima, fa delle cose eccellenti, ma la regia le chiede in alcuni momenti di urlare, di scalmanarsi, di ringhiare dalla rabbia. Lei esegue e non sbaglia mai, il suo livello è sempre alto. È giusta una tale impostazione del personaggio?
I drammi di Fosse non sono propriamente minimalisti, sono gelidi, marmi di tombe luccicanti di pioggia. I suoi personaggi però non appartengono alla categoria dei morti, né hanno la lontananza delle figure di Edward Hopper e nemmeno la stanca normalità disperata dell’umanità di Raymond Carver. Sono vivi che passeggiano nell’unico luogo reale in cui si svolgono le nostre esistenze, il cimitero. E i cimiteri sono pieni di vita, vi avvengono fatti vari e diversi, sotto sotto (ma molto sotto, diciamo sotto terra) mostrano persino un lato comico della condizione umana, pur essendo l’umorismo di chi non è ancora uno scheletro.
Almeno in Italia, Fosse può non piacere a tutti anche se è un eccellente drammaturgo dalla poetica e dall’estetica originali che ha meritato il Nobel 2023. Ma non offre speranza, non una via di fuga, nemmeno metafisica e beckettiana, né assurda e ioneschiana. L’impressione è che Binasco abbia un po’ meridionalizzato il ruolo principale, la Donna, di modo da rendere attraverso di lei il dramma – più caloroso non si può dire – più accettabile e meno desolato. Fuochi fatui su una distesa di ghiaccio. Sono operazioni da regista raffinato e se per caso non l’ha compiuta, se Binasco ritiene che la sua idea della Donna rispetti pienamente lo spirito fossiano, la raffinatezza permane perché per montare una parte simile ci vuole una mano registica molto sicura, oltreché un’attrice sopraffina, altrimenti il personaggio diverrebbe solo una povera nevrotica e non la portatrice di un mal di vivere come pena irriducibile, come ergastolo della condizione umana. Tuttavia resta un dubbio perché i personaggi non hanno nome, si chiamano “Ragazza”, “Uomo”, “Madre”, “Sorella”, “Zio”, “Padre”, un anonimato che sottrae loro il segno fondamentale dell’appartenenza sociale e della convivenza. Di fronte al prossimo, per prima cosa siamo i nostri nomi. A guardare queste figure boreali di Fosse, viene il dubbio che manchi loro una sufficiente esposizione ai raggi solari. Il filosofo francese Victor Cousin (1792 – 1867) – molto noto ai tempi suoi, oggi praticamente dimenticato – riprendendo la teoria climatica di Montesquieu, afferma: “Tel climat donné, tel peuple suit” (Dato un certo clima, ne segue un certo popolo). Vecchia questione storiografica controversa, ma sotto l’aspetto teatrale Binasco ha fatto entrare nell’anima della Madre un raggio di sole dall’abbaino a nord.
Tuttavia è anche vero che appuntarsi nella mente che si sta assistendo al teatro di un norvegese significa togliere arbitrariamente universalità alla visione dell’autore. Parla di essere umani, non di esseri boreali. È il modo che cambia e determina una sensazione esotica. Il punto di vista è nordico e forse tocca allo spettatore adattarsi. Non è un grande sforzo e tutto sommato vale la pena.
La destrezza di Fosse sta nell’aver preso una banalità della drammaturgia occidentale, una storiella di corna, e di averla infilata in un luogo comune, l’inferno di famiglia in un interno, riuscendo a fabbricare un dramma intenso, teso. “Fabbricare” dovrebbe essere la parola giusta, perché si capisce che l’autore possiede una grande conoscenza dei meccanismi teatrali e la sua freddezza compositiva è di un ingegnere che costruisce un microscopio per osservare l’insetto umano. Ecco che allora gli altri personaggi appaiono come figure entomologiche da studiare sul vetrino di questo interno di famiglia. Un interno che lo scenografo Nicola Bovey costruisce con apparente semplicità, quasi pauperistica: un divano qualche sedia, un tavolo, una lavatrice, un frigorifero, un grammofono a 45 giri che segna il periodo storico (anni Settanta, primi anni Ottanta). Invece ad osservarla più attentamente, vari dettagli rivelano che si tratta di una scenografia complessa, raffinata, che in Italia attualmente è possibile realizzare forse soltanto nel contesto di un teatro stabile, in questo caso Torino (del quale Binasco è direttore artistico).
Anche la sinossi è semplice e in effetti sofisticata: la Madre della Donna, sposata con il Padre che fa il marinaio e a casa non c’è mai, va a letto con lo Zio, il fratello del Padre. Scoprono la tresca la Sorella e, soprattutto la Ragazza, la quale è la Donna da giovane. Così esiste una sola psicologia ma due personaggi perché colta in due momenti diversi della vita. Sta in questa doppiezza la distruzione di ogni speranza perché in verità la condizione resta sempre la stessa: angoscia, rabbia, fallimento, inadeguatezza, inutilità della propria persona. Nulla di nuovo sotto il sole, anche se qui appunto quasi non ve n’è (di sole), addirittura a un certo momento la Madre dice che è una bella giornata e la Ragazza (ossia la figlia) che piove. Tutto sta nel modo di scrivere i dialoghi: “Non si sa niente, nessuna cosa al mondo si sa”; “Niente, non possiamo niente, neanche dipingere… niente”. È la drammaturgia del niente, seppur una simile definizione può non essere un complimento. Quando d’improvviso arriva, il Padre scopre la Madre e lo Zio impegnati sul divano in ludi sessuali intensi. Però non scoppia una tragedia, semplicemente la famiglia si scioglie, si inabissa nel nulla come vuole la drammaturgia del niente. La distruzione della speranza sta anche nel fatto che la tragedia non c’è, che il tifone non muove l’acqua del mare. Il tema è questo: l’abbandono. Abbandono non tanto della moglie, delle figlie, del fratello o della vita, ma di se stessi come partecipi di una storia.
Il secondo personaggio femminile è la Madre, interpretata da Isabella Ferrari. Nel caso di questa attrice sarebbe un’ingiustizia osservare che se di molto cinema si vive, di poco teatro si perisce. Ferrari svolge il ruolo correttamente, ma ad osservare le sue numerose entrate (ed uscite) di scena, si nota che il miracolo non avviene. L’artista di forte presenza scenica è in grado di cambiare un’atmosfera, una temperatura, quando entra e di lasciare un senso di vuoto quando esce. Naturalmente l’attesa della magia è dovuta anche all’aspettativa che una delle più importanti attrici dell’attuale cinema italiano inevitabilmente induce. Forse è il caso di approfittare dell’occasione e rubare il più possibile il mestiere alla carismatica Villoresi che sa sempre come portare a sé lo sguardo del pubblico e quando invece lasciarlo andare per riprenderselo a piacimento.
Il ruolo della Ragazza è affidato a Gloria Faggiano. Lei è la Donna da adolescente, dovrebbe essere una proiezione di questa signora che si rivolge al passato, mostrare il punto di partenza del personaggio, far capire da dove arriva quando si volta indietro. La parte è dura, vero, ma l’interprete è rigida: una giovane attrice, per ora, non una giovane Villoresi.
Il ruolo dello Zio è affidato a Michele Di Mauro che lo segna di una sorta di riluttanza a stare nella condizione di traditore del fratello e dà senso al carattere. La Sorella di Giulia Chiaramonte è una ragazza che si ribella mediante il sesso, finanche la lascivia: sbracata sul divano, sfacciata, espone provocatoriamente il proprio corpo come una sfida. Abile l’interprete a usare un atteggiamento di strafottenza e di rivolta per evitare qualsiasi sospetto di squallore. Il Padre è Fabrizio Contri, parte non ampia ma importante perché governa il finale e l’attore non può sbagliare altrimenti il dramma cade e lo spettacolo si chiude male. Contri non sbaglia anche se la regia gli chiede una quasi fissità che lo rallenta nei tempi. Lo stesso Valerio Binasco fa l’Uomo, il marito della Donna da lei cacciato via di casa. A lui è affidato un altro aspetto dell’abbandono che non è soltanto una partenza o una solitudine ma un rifiuto. Un no. “No” è la parola più importante del vocabolario insieme a “sì”. Allora la drammaturgia di Fosse non è una drammaturgia del niente ma del no, in scena per il pubblico di un paese in cui la parola è “forse”.