“Il giuocatore” di Carlo Goldoni, adattamento e regia di Roberto Valerio, con Alessandro Averone, Massimo Grigò, Alvia Reale. Alla Sala Umberto di Roma
Giochi di carte e di teatro
Nella prefazione ai suoi tre atti intitolati Il giuocatore, attualmente in scena alla Sala Umberto con la regia di Roberto Valerio, Carlo Goldoni scrive: “Io non pretendo già che le mie Commedie abbiano ad essere la scuola degli uomini; ma questa sì vorrei che lo fosse, e in questa ho studiato di farla da Precettore”. Quindi si tratta di un’opera moralistica sul “vizio che, secondo me, lo credo il peggiore di tutti”. Ragion per cui nessuno dei personaggi avrebbe da essere virtuoso, accattivante e pronubo di immedesimazione da parte dello spettatore. Sono tutti dei malnati, tutti legni storti che portano in cuor loro abiezioni, colpe, egoismi, canaglierie. Anche il protagonista, Florindo, non è un eroe positivo: “S’io avessi posto in iscena un Giuocator fortunato, brillante, allegro, generoso e felice, avrei formata una Commedia più viva, più gioconda, e forse assai più dall’Universale gradita, ma avrebbe ella servito a solleticare gli animi al vizio, ed avrei innamorato gli Ascoltatori di una lusinghiera e falsissima compiacenza”.
In virtù di un teatro etico, l’autore sacrifica la fortuna presso il pubblico all’ammaestramento del cittadino. Difatti certamente non Il giuocatore fu uno dei titoli di maggior successo del gruppo al quale appartiene, le famose sedici commedie nuove che nel 1750 Goldoni s’impegnò a scrivere in un solo anno per l’impresario Girolamo Medebach. A Venezia nei tempi settecenteschi giocavano tutti, ricchi e poveri, uomini e donne, intelligenti e sciocchi, vecchi e giovani. Il più famoso: Giacomo Casanova. A teatro avevano attrezzato dei “ridotti” frequentati anche da Goldoni, sale nello stesso edificio dove la gente s’arricchiva con le carte e più spesso finiva sul lastrico. L’autore s’era dunque ficcato in testa di fare la morale a spettatori che mentre assistevano alla sua commedia contro il gioco già pensavano al dopoteatro attorno ai tavoli verdi. Non l’atteggiamento migliore per tirare su soldi al botteghino.
Anche oggi la cassa conta e i teatranti stanno sempre a cercare l’equilibrio sul filo del rasoio fra il profitto e l’arte per guadagnar qualcosa senza perdere la dignità. Le riduzioni servono a risparmiare e a tenere desto un pubblico non più uso alla durata delle commedie d’una volta. E quindi a far cassetta. Un po’ per celia un po’ per non morire sotto i debiti non di gioco ma di teatro. Roberto Valerio ha adattato la commedia di Goldoni, l’ha tagliata e rimaneggiata, ha eliminato varie parti, in particolare Arlecchino, che qui sarebbe il servitore di Florindo, e Brighella custode del casino, ossia delle stanze di gioco, dando un po’ del primo e un po’ del secondo a Pancrazio, l’amico di Gandolfa, la vecchia signora che vorrebbe convolare a nozze con la carne fresca di Florindo. Il regista ha tenuto Pantalone de’ Bisognosi ma gli ha tolto la maschera chiedendo al costumista Luigi Fiorato di metterlo assieme agli altri personaggi in civile con abiti moderni. Ha ottenuto uno spettacolo nel quale Florindo non sta più a metà strada fra tragedia e commedia, non sorge dall’utopia illuminista di educare e magari persino migliorare l’essere umano ma si trasferisce in un carattere fra il romantico e il crepuscolare. Si perde il senso moralistico della commedia e si ottiene lo spettacolo di una vita bruciata che rende il protagonista maggiormente fascinoso. Il diavolo è più attraente se cade nel tripudio della luce al tramonto. Però l’intento registico sarebbe di mettere in scena la commedia goldoniana come metafora delle dipendenze che traviano le vite di noi del XXI° secolo, lo scrive Valerio stesso nelle sue note: “Droghe, alcol, sesso o, stando alla contemporaneità, gaming, smartphone, internet o social network, farmaci”. Epperò si torna alla questione sollevata da Goldoni anche se in termini più moderni, ossia che se Florindo è un eroe romantico, un maledetto che scende gli scalini della perdizione nelle letterarie ombre della disperazione, un Werther, meglio ancora un James Dean incapace di adattarsi alle regole perbeniste della società, allora il vizio recupera la sua malìa e la lezione morale va a farsi benedire. Tutto ciò non significa che lo spettacolo non funzioni, semplicemente che l’autore è stato tradito perché si è temuto che non funzionasse.
Alessandro Averone dà al protagonista un’insolita aria straniata, quasi rintontita dal vizio, frastornata dagli accidenti che gli occorrono per causa del gioco, osservatore impotente di se stesso e del proprio destino di perdente suggellato in ogni carta del mazzo. Qui è proprio un romantico che il destino cinico e baro conduce alla catastrofe. Anzi no, sono due bari a spennare Florindo, viscidi e infidi come il diavolo quando si camuffa da compagno di giochi. Interpretati rispettivamente da Massimo Grigò e Mario Valiani, Lelio e Tiburzio, il gatto e la volpe, rappresentano il fondo immorale del vizio, la macchinetta tritacarne della tentazione e il punto d’incrocio degli avvenimenti che inabissano Florindo nella perdizione prima della salvezza finale. A fornire comicità a una commedia quasi noire ci pensa il Pancrazio di Nicola Rignanese, al quale la regia chiede continui rifornimenti di brillantezza e ritmo allo spettacolo. Molto spiritosa Alvia Reale nella parte di Gandolfa, la sorella vecchia di Pantalone che, amata da Pancrazio, vuole però il bel giovane Florindo, gli presta dei soldi e gli promette l’agio economico se si acconcia a sposarla. Reale arricchisce il personaggio di tutto un repertorio di ammiccamenti, sguardi, strusciamenti, svenevolezze da maliarda focosa ma avvizzita e ridicola che entra in competizione con la nipote Rosaura (Mimosa Campironi), giovane, fresca, bella, promessa sposa di Florindo. Altra rivale di Rosaura, è Beatrice (Roberta Rosignoli), amante del protagonista. Davide Lorino nel ruolo di Pantalone privato di maschera e costume fa il padre di Rosaura con un piglio da severo genitore ottocentesco adatto alle scelte della regia. La scenografia, anch’essa di Guido Fiorato rappresenta una nave, o meglio parte di essa, che una nota di regia conferma rappresentare la metafora della vita ma è “anche un omaggio a un teatro inteso come viaggio e a Giorgio Strehler – scrive Valerio – che così lo raffigura parlando del commediografo settecentesco, nelle sue Memorie goldoniane riscritte fra la primavera del 1993 e il Natale del 1997 e mai andate in scena, un atto d’amore verso la teatralità”. La coincidenza è curiosa: Strehler era scomparso da otto anni, quando, sotto Natale del 2005, partito da Chicago con dentro i costumi e le scene dell’Arlecchino servitore di due padroni in tournée nelle Americhe, un container imbarcato sulla CP Valour per raggiungere Livorno finì in mare perché la nave si era arenata davanti alle Azzorre, al largo di Praia do norte. È il mare della vita che Goldoni conosceva bene, da uomo che, nato all’inizio del Settecento, navigò a lungo nel tempo del suo secolo fino ad approdare all’era nuova della Rivoluzione.