Dal film di Giuseppe Tornatore, “Una pura formalità”, versione teatrale scritta e diretta da Glauco Mauri anche interprete con Roberto Sturno
Lo spettacolo è un programma di sala
Per capire che tipo di teatro fanno Glauco Mauri e Roberto Sturno, pluridecennale coppia della scena italiana nata nel 1981, è sufficiente osservare i saluti alla fine dello spettacolo: una gerarchia ferrea delle entrate a prendere gli applausi, calibrata sul numero di battute che ogni attore dice, nessuna violazione della centralità dei due protagonisti. È un teatro rigidamente tradizionale, da compagnia borghese sulla quale gli ultimi trent’anni, ma anche cinquanta, di evoluzione della messinscena e dell’arte dell’attore non hanno avuto la minima influenza.
Mauri e Sturno sono attualmente con la loro compagnia al teatro Ghione di Roma con Una pura formalità, versione teatrale dell’omonimo film di Giuseppe Tornatore del 1994 che aveva come protagonisti Roman Polanski e Gérard Depardieu. I due protagonisti dell’allestimento – Mauri è anche regista e autore dell’adattamento – hanno fatto questa scelta evidentemente perché si tratta di una vicenda strutturata in modo da esaltare il loro rapporto artistico. In effetti si tratta di una lunga reciproca perlustrazione di due personaggi, un commissario di polizia e un famoso scrittore che viene portato al commissariato dopo essere stato trovato dai gendarmi mentre correva sotto la pioggia in una classica notte buia e tempestosa. Non ha documenti, non ricorda cosa gli è successo, cerca anche di ribellarsi ai poliziotti e per giunta in quelle ore una persona è stata uccisa. È un thriller da camera con un finale bizzarro, soprannaturale, che si sviluppa quasi interamente nel dialogo fra il commissario e lo scrittore, il quale si chiama Onoff (on/off, acceso/spento). Lo spettacolo è carico di simboli, tutti spiegati con dovizia dal programma di sala, il che tranquillizza lo spettatore sulla sua capacità di capirli ma gli toglie la libertà d’interpretarli come egli crede. Quindi il programma dice che tra questi simboli “certamente il più evidente è la pioggia, protagonista e vera e propria colonna sonora diegetica che accompagna, dall’inizio alla fine, il film”. “Diegetica” è parola che non si poteva evitare, lo spettatore avrà magari difficoltà con i simboli ma come ognun sa, è perfettamente al corrente del fatto che la diegesi è termine da critica strutturalista e indica la linea del racconto nel suo svolgimento essenziale. Quindi la pioggia è diegesi e insomma quest’acqua scrosciante “scandisce ritmicamente il passare del tempo non segnato invece da un orologio alla parete privo di lancette. E l’acqua, da sempre infatti è ritenuta fonte di purificazione, metafora, in molte religioni, della transizione tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Altri simboli. Buio e luce. Contrasto tra il mistero e la sua risoluzione. Quando nella narrazione il mistero è fitto, la luce è scarsa o manca del tutto. Quando la storia alla fine si disvela, il buio, la notte, lasciano il posto alla luce, all’alba”.
Bene, ora che il programma di sala ha recensito lo spettacolo, non c’è più nulla da dire. Infatti il resto è noia. Mauri fa un commissario tutto sornione e imperscrutabile, Sturno fa uno scrittore tutto trasandato e agitato (sono naturalmente i simboli del poliziotto e dell’artista). Ma quel che più sorprende è che questa sembra una faccenda fra i due attori, una loro recita privata alla quale lo spettatore è invitato ad assistere come alla messa di San Pasquale, l’inventore dello zabaione, e ad attendere pazientemente il miracolo della crema che monta. Il punto è che questa vecchia coppia di attori, certo non privi di tecnica e di capacità, recitano emanando una certezza granitica che il vero teatro è quello che fanno loro. In fondo è corretto, se il teatro è lo spettacolo della pomeridiana d’inverno in una domenica di pioggia mentre alla televisione stanno ospitando Pippo Baudo e non c’è in giro neanche uno scrittore di ricette gastronomiche a cui chiedere consiglio per lo zabaione.