“Figli di Abramo” di Svein Tindberg, adattamento e interpretazione di Stefano Sabelli, traduzione e regia di Gianluca Iumiento. Al teatro Basilica di Roma
Pare che siamo tutti fratelli
Al momento degli applausi, Stefano Sabelli dedica lo spettacolo che ha portato al teatro Basilica di Roma, Figli di Abramo (sottotitolo Un patriarca, due figli, tre fedi, un attore), a padre Michele Piccirillo. Tutta la serata viene illuminata dal nome di questo grande archeologo e frate francescano, scomparso nel 2008, che passò gran parte della sua vita in Terra Santa. Chiunque lo abbia incontrato ne parla come d’un uomo di spessore notevolissimo non solo scientifico ma anche umano. È evidente che Sabelli si avvale della fortuna di averlo conosciuto e frequentato a Gerusalemme e i momenti migliori della serata sono i ricordi personali gerosolimitani dell’attore. Per il resto Figli di Abramo è un lungo monologo scritto da un norvegese, Svein Tindberg noto in patria per i suoi testi di teatro di narrazione basati sulla Bibbia.
Lo spettacolo vive d’una forte carica etica e vuole ribadire ciò che già tutti o quasi sanno, salvo gli smemorati e gli ipocriti, cioè che Abramo ebbe due figli, Ismaele, progenitore del popolo arabo avuto dalla schiava Agar, e Isacco, da cui discendono gli israeliti, nato dalla moglie Sara. Quindi ebrei e musulmani sono fratelli e siccome il cristianesimo deriva dall’ebraismo, le tre religioni monoteiste sono dette abramitiche. Uno storico delle religioni potrebbe trovare la definizione di “abramitiche” controvertibile perché le cose in questa materia sono assai complesse e non si può farne una colpa all’autore se volgarizza ad uso del pubblico la storia di Abramo, dei suoi figli, di Sara, Isgar e dei loro rapporti con l’Altissimo ampiamente narrata dal Genesi. L’urgenza di adattare a monologo il racconto biblico viene dall’orrore del conflitto israelo-palestinese e dalla necessità di ribadire che siamo tutti fratelli e che dobbiamo volerci bene. Anche qui in campo storico e politico le cose sono intricate però sembra chiaro che per l’autore il messaggio deve essere semplice, persino elementare, altrimenti non se ne esce. Se c’è un luogo comune dei mediterranei, riguarda la supposta ingenuità dei popoli nordici e non si può affermare che sia smentita dal monologo di Tinberg. Naturalmente, questa sensazione di infantilismo è certamente dettata dalla incoercibile perfidia sudista che non può albergare in un autore di tale afflato etico e morale. Al confronto l’Andersen della Piccola fiammiferaia pare uno scrittore di thriller metropolitani.
Dal punto di vista teatrale, il pericolo che corre il teatro di narrazione, anche veterotestamentario, è di apparire come una conferenza movimentata e l’attore un oratore agitato. Stefano Sabelli per quanto metta energia, si industri in toni, gesti, mimiche impiega mezzo spettacolo a cancellare nello spettatore la sensazione di lezione dinamica, ragion per la quale la rappresentazione pare troppo dilatata. Però a lungo andare l’attore viene fuori perché Sabelli si dà un gran daffare e come tutti gli uomini di buona volontà alla fine qualcosa ottiene, per esempio di fare comunque teatro e di rendere la platea, semmai ce ne fosse bisogno, più consapevole del fatto che ora di piantarla di ammazzarci l’un l’altro. La regia aiuta l’interprete mettendo in scena Manuel Petti alla fisarmonica e Marco Molino al vibrafono che suonano fra le varie cose Everybody needs somebody to love dei Blues Brothers e le colonne sonore di Lo chiamavano Trinità e La pantera rosa. I video di Kezia Terracciano proiettati sulle pareti antiche del teatro Basilica non si vedono molto bene ma fanno atmosfera e movimento.