“Ben Hur” di Gianni Clementi, regia di Vanessa Gasbarri, con Andrea Perrozzi, Alessandro Salvatori ed Elisabetta Tulli. Al teatro 7 di Roma
Alla periferia del Colosseo
Commedia in due atti di gran successo del 2008, con centinaia di repliche negli anni successivi, Ben Hur di Gianni Clementi riesce a superare perfino l’ostacolo più alto del sistema teatrale italiano: l’entrata nel repertorio, in genere precluso anche ai testi di indubbio gradimento pubblico che funzionano da polizze assicurative sulla cassetta al botteghino.
In scena al Teatro 7 di Roma con la regia di Vanessa Gasbarri, Ben Hur continua a scompigliare dalle risate il pubblico, il quale rumoreggia sulle battute e commenta l’azione con manifesto gaudio. Questo è proprio teatro popolare, ché a stare in sala pare d’essere finiti dentro una cronaca teatrale anni Trenta dall’Ambra Jovinelli. Fra la commedia brillante e la farsa grossolana, il punto di discrimine è l’ombelico. Sotto si sta nel cachinno, nel peto, nella risata grassa e scurrile; sopra, nell’umorismo, nell’ironia, nella critica di costumi. Non è una questione di parole o di situazioni, lo si vedeva perfettamente con Gigi Proietti che sapeva usare il turpiloquio con impareggiabile eleganza; lo mostra un Feydeau capace di mettere in scena una signora piacente che mostra il sedere al marito deputato e a un sindaco chiedendo loro di toglierle un pungiglione di vespa dal gluteo succhiando la ferita. È una questione di stile, di consapevolezza che in scena si può fare qualsiasi cosa e che il fatto conta poco, contano il contesto e il modo di arrivarci. L’ombelico non è una frontiera geografica ma autobiografica, riguarda ciò che si vuole raccontare di se stessi, segna la differenza fra una Littizzetto e un Corrado Guzzanti.
Ben Hur si svolge nell’appartamento di una periferia romana abitato da un fratello e una sorella: Sergio era uno stunt-man ma s’è fatto male sul set di Salvate il soldato Ryan, aspetta un risarcimento dalla produzione americana e nel frattempo campa alla giornata come centurione per i turisti al Colosseo; Maria fa la telefonista di una chat erotica. In questa situazione grigia e litigiosa, arriva Milan, immigrato bielorusso clandestino che, ovviamente, cambia tutto. Non va spiattellato come la situazione evolve, chi ha assistito allo spettacolo già lo sa e chi non l’ha visto non lo deve sapere. Anche perché il finale è inaspettato per una commedia brillante.
Elisabetta Tulli nel ruolo di Maria e Andrea Perrozzi in quello di Sergio sono attori tagliati per il genere comico, lo sanno fare e hanno i tempi. La regia li mette sui binari giusti e loro arrivano in fondo. La parte di Alessandro Salvatori è più difficile perché il personaggio di Marian ha un arco evolutivo di maggior complessità e nasconde delle difficoltà recitative sia tecniche che psicologiche. L’interprete le supera con una brillantezza non scevra di profondità, gioca e scherza ma sotto si sente una malinconia, la solitudine e l’inquietudine dell’immigrato clandestino. È un ruolo rischioso, una trappola, un attore ci può cascare dentro ma se riesce a saltarla alza il livello di tutta la rappresentazione.