“Lazarus” di David Bowie e Enda Walsh, uno spettacolo di Valter Malosti con Manuel Agnelli e Casadilego. Al teatro Argentina di Roma

Lazarus

Solo una morte romantica vince la morte

Che mettere in scena Lazarus, il musical rock di David Bowie ed Enda Walsh sia un’operazione di commercio e di emozione – i due aspetti vanno sovente insieme – appare ovvio. Però l’edizione italiana, firmata da Valter Malosti e allestita all’Argentina di Roma con Manuel Agnelli nel ruolo protagonista di Newton, l’uomo che cadde sulla terra, ha un’anima estremamente sincera. Si intuisce che Malosti ha questo spettacolo posato nel profondo del cuore, che nella sua mente si proietti il Duca Bianco mentre cammina nella notte londinese con il trench sul completo scuro, il cappello Fedora in testa, l’eleganza, la distinzione della sua apparizione in Absolute beginners: “I’ve nothing much to offer / There’s nothing much to take / I’m an absolute beginner / And I’m absolutely sane” (Non ho molto da offrire / Non c’è molto da prendere / Sono un debuttante assoluto / E sono perfettamente equilibrato). Gli uomini molto eleganti offrono se stessi.
Nessuno, ma proprio nessuno, che non sia vissuto dentro, ma proprio dentro, gli anni Settanta e Ottanta, che non abbia comprato l’album The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars (assieme a The dark side of the moon dei Pink Floyd), può sfuggire alla forza gravitazionale di David Bowie, così romantico da riuscire a tenere uniti nella sua opera quei due decenni talmente diversi da essere opposti, il primo rigonfio di anticonformismo e illusioni, il secondo di omologazione  e miraggi. Forse soltanto lui poteva interpretare il Thomas Newton de L’uomo che cadde sulla Terra, film del ’76 di Nicolas Roeg dal romanzo di Walter Tevis, di cui Lazarus rappresenta la continuazione dieci anni dopo, come il don Chisciotte di Cervantes che nel 1615 risale su Ronzinante e riprende le sue avventure lasciate nel 1605. Al pari del cavaliere errante che stando in un altro mondo sapeva osservare questo, solo un uomo venuto da un pianeta alieno può entrare nel nostro con tanta profondità.
Lo spettacolo incomincia con l’omonima canzone Lazarus, epitaffio che Bowie malato dedica a se stesso prossimo alla fine, parola davanti al mistero del buio cantata da Manuel Agnelli abbandonato in una poltrona sopra un girevole: “ Look up here, I’m in heaven / I’ve got scars that can’t be seen / I’ve got drama, can’t be stolen / Everybody knows me now” (Guarda qui, sono in paradiso / Ho cicatrici che non si vedono / Ho il mio dramma, nessuno me lo può togliere / Tutti mi conoscono, adesso). Lo spettacolo è lo sguardo sulla cicatrice dell’anima che cadde qui da noi: “Sono un uomo che sta morendo e che non può morire”. Ha tentato di andare via, ma glielo hanno impedito, ha amato una donna ma lei è partita. Così quando dopo aver cantato Changes – “I still don’t know what I was waiting for / And my time was running wild / A million dead-end streets” (Non so ancora cosa stessi aspettando / E il tempo mi sfuggiva senza controllo / Un milione di vicoli ciechi) – lui parla con lei, perché una donna c’è qui sul palcoscenico e lui la considera una propria immagine interiore, è una ragazza che sta solo dentro la sua testa. Allora Where are we now?, dove siamo adesso?, a che punto siamo adesso?: “Had to get the train / From Potsdamer Platz / You never knew that / That I could do that / Just walking the dead” (Dovevo prendere il treno / Da Potsdamer Platz / Non hai mai saputo / Che io sapessi farlo / A spasso nei ricordi). Tu, donna, sei una mia proiezione, il palcoscenico è pieno di proiezioni e di video, sembra di stare al Much More nel 1979, l’anno di passaggio dall’illusione al miraggio, discoteca d’una gioventù baby-boomer, schermo cinematografico, palco per i concerti, laser, luci tecnologiche quanto un walkman. Pensare che tutto ciò non esiste, che tutto è invenzione della mia mente e quella ragazza danzante nell’effetto speciale della pioggia sulla pista del Much More una psichedelia del mio desiderio di adolescente, è il primo balbettio dello studente di filosofia caduto nella vecchia trappola per i principianti del pensiero di confondere il mondo con una creazione della propria immaginazione. Principiante del pensiero, absolute beginner. Ma il genio di Bowie è di trasformare la balbuzie speculativa in un discorso sul dolore acutissimo di essere altro da voi umani che non vi detesto per mia stanchezza, per mia consunzione, per l’evidenza dell’inutilità d’una lotta. Killing a little time: “I staggered through this criminal reign / I’m not in love, no phony pain” (Ho camminato barcollando in questo regno criminale / Non conosco amore, né falso dolore). Conosce invece la sofferenza vera nella sua liturgia notturnale di alcol e televisione l’uomo che non invecchia mai, la sua pena è la mente mangiata dall’aquila della consapevolezza. Lazarus, Lazzaro, vive nel mondo dei morti e risorge, Don Chisciotte muore nel mondo dei vivi e rimonta su Ronzinante; Newton non può né vivere né morire a New York, città-video neuroalcolica, nel suo appartamento rivierasco d’un fiume di gin. Conobbe Mary-Lou, cameriera in un motel del New Mexico in L’uomo che cadde sulla terra, se ne innamorò e ora il suo ricordo si cangia in una fatamorgana adolescente e incestuosa, una chimera di due femmine, l’amante terrestre e la figlia morta sul suo pianeta d’origine. La memoria è l’inferno dell’uomo senza morte, che mai avrà il perdono dell’oblio concesso ai mortali, e che cerca di gettare il suo dolore in una geenna piena d’immondizia televisiva bruciata dal fuoco degli schermi perennemente accesi. Ma se la morte non arriva di sua volontà ad uccidere il ricordo, spingila tu con un colpo alla schiena, tu che ti chiami Valentine e vuoi compiere una strage il quattordici febbraio in una scuola perché l’eternità dell’amore è nell’adolescenza che non sente vecchiezza. Solo la morte romantica sconfigge la morte. Valentine’s Day: “It’s Valentine’s Day / The rhythm of the crowd / Teddy and Judy down / Valentine sees it all / He’s got something to say” (È il giorno di Valentine / Il ritmo della folla / Teddy e Judy abbattuti / Valentine vede tutto / Ha qualcosa da dire).
In vestaglia con un bicchiere in mano sta Manuel Agnelli sul palco; la sua tristezza, la sua lentezza, la furiosa stanchezza romantica caratterizzano la sua recitazione e lo consegnano all’esistenzialismo rock e al proprio canto, alla spettacolarità della messinscena di Malosti che molto risolve dal punto di vista teatrale, molto nasconde e rivela solo le ombre dell’uomo che non muore. Non c’è Bowie in Agnelli ma Agnelli con il suo modo di stare, di interpretare i pezzi, rallentando a modo suo la leggendaria Heroes tanto amata dai ragazzi degli anni Settanta e Ottanta: “I, I will be king / And you, you will be queen / Though nothing will drive them away / We can beat them, just for one day / We can be Heroes, just for one day. (Io, io sarò re / E tu, tu sarai la regina / Anche se niente li porterà via / Li possiamo battere, solo per un giorno / Possiamo essere Eroi, solo per un giorno).
Non fummo re e regina nemmeno per un giorno, non li abbiamo mai battuti neanche per un momento, non siamo eroi neppure di notte in fondo a un bicchiere di gin, oggi beviamo all’ora dell’aperitivo spritz di Aperol e prosecco fatto con l’Idrolitina.
Accanto ad Agnelli, Casadilego non solo canta molto bene (come ci si aspetta) ma mostra doti interpretative nel ruolo della ragazza dei sogni. Musiche dal vivo (ovviamente) suonate da una band composta da Laura Agnusdei sax tenore e sax baritono, Jacopo Battaglia alla batteria, Ramon Moro tromba e flicorno, Amedeo Perri tastiere e synth; Giacomo “Rost” Rossetti al basso, alle chitarre Stefano Pilia e Paolo Spaccamonti. Peccato che la fonica spari e non sia ben regolata per uno spazio teatrale. Progetto sonoro GUP Alcaro, scene Nicolas Bovey, costumi Gianluca Sbicca, luci molto curate di Cesare Accetta. Video Luca Brinchi e Daniele Spanò. Coreografie di Michela Lucenti in scena assieme a Dario Battaglia, Attilio Caffarena, Maurizio Camilli, Noemi Grasso, Maria Lombardo, Giulia Mazzarino, Camilla Nigro, Isacco Venturini.

Marcantonio Lucidi,
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