“Falstaff e le allegre comari di Windsor” di William Shakespeare, versione e adattamento di Roberto Lerici, regia di Carlo Emilio Lerici. Con Edoardo Siravo e gli attori della compagnia del Teatro Belli di Antonio Salines. Al Vittoria di Roma
La beffa della condizione umana
Alla regina Elisabetta I piacque talmente il personaggio di Sir John Falstaff visto nelle due parti dell’Enrico IV da ordinare a Shakespeare di scrivere un altro dramma in cui mostrare il personaggio innamorato. E a tambur battente pure aveva da essere finita l’opera nuova, in quattordici giorni. Quindi il drammaturgo si inventò Le allegre comari di Windsor, testo peraltro tutto centrato sulle donne, sulla loro intelligenza e la loro indipendenza, a dimostrazione che Willy era assai più anticonformista delle femministe che lo contestano per avere osato scrivere La bisbetica domata, gran commedia comica di addomesticamento d’una ragazza, Caterina, da parte di un uomo, Petruccio. Vista la figura barbina che stavolta il bardo fa fare al maschio Falstaff, grasso vigliacco sbruffone ladruncolo beone mangione lascivo e pure stupido, il moralismo del politically correct imperante vorrebbe l’immediata messa all’indice delle Allegre comari di Windsor per oltraggio ai portatori di pene, i quali rappresentano pur sempre una metà del cielo.
Per fortuna non ci pensa nessuno a bandire questa magnifica beffa ai danni di Falstaff e si può tranquillamente allestirla al teatro Vittoria di Roma nella versione di Roberto Lerici, commediografo, scrittore e autore televisivo scomparso trent’anni fa, che con un po’ di cambiamenti esalta l’umanità, la malinconia quasi, di questo grosso fanfarone in genere condannato alla farsa. Quindi lo spettacolo, diretto da Carlo Emilio Lerici, viene rinominato Falstaff e le allegre comari di Windsor (che in effetti sarebbe il primissimo titolo della commedia) a chiarire che l’accento è posto sul carattere del protagonista oltreché sulla situazione, e il ruolo è affidato ad Edoardo Siravo, attore con il physique du rôle per interpretarlo, imponente a tal punto da parere ovvio che prima o poi in carriera lo avesse da portare in scena.
L’idea di Siravo nella parte di Falstaff, cioè di un interprete impegnato in un personaggio a lui congeniale, porta ad aspettarsi una serata teatrale molto all’italiana, durante la quale insomma il testo non viene visto dagli artisti a mo’ di verbo sacro ma come pretesto, come tappeto di parole in cui rotolarsi a piacimento per esaltare la buffoneria e la spettacolarità. E invece no. Il prim’attore, che potrebbe tranquillamente inzeppare il personaggio d’ogni sgarro alla decenza, d’ogni licenza alla risata grassa, si trattiene. Par quasi ritroso e siccome ci si aspetta che parta con le sparacchiate comiche mentre invece circonfonde Falstaff di un’aura saturnina, lo spettacolo sconta nella prima parte un ritmo un po’ basso, come se riluttasse a spalancarsi all’allegria goliardica promessa dalla fama imperitura del gradasso sbombone. Fatta salva la scena d’introduzione che però non è comica ma è uno scatenamento di tutta la compagnia in un dixieland composto da Francesco Verdinelli, il quale segue gli intenti di Lerici padre e figlio, l’autore della versione e il regista, e chiude sul monologo finale di Fastaff con un brano delicato e intimo di chitarra e violini.
Ora, per spettacoli siffatti, conta assai la serata e una replica può star su di ritmo mentre la successiva si rivela più distesa. Comunque a un certo momento si capisce che l’equilibrio del Falstaff di Siravo non sta in rodomontate da farsa ma è più sottile, è punta di chiodo sul filo della condizione umana che va dal grottesco alla desolazione. Naturalmente un testo si mette in scena per molti motivi, perché si ha voglia di farlo, perché si è nell’età giusta, perché è capitata l’occasione. Perché, come in questo caso, è un omaggio ad un bravissimo uomo di teatro scomparso da due anni, Antonio Salines, che fu interprete e regista di questa produzione ora riproposta dalla compagnia del Teatro Belli da lui stesso fondata più di mezzo secolo fa. Tuttavia si sente spesso il dovere di cercare nella contemporaneità una qualche ragione che giustifichi la messinscena. Però quanto si legge nel programma di sala cala senza attrito l’allestimento nel nostro tempo: “Falstaff e la sua ‘armata Brancaleone’ rappresentano quello che noi siamo. Oggi è l’epoca dei “tutti gabbati” e alla fine ‘Allegri’ sono gli spiriti, ma ‘Tristi’ i risultati. Falstaff diventa così esempio di decadenza fisica e morale dell’uomo che resta stritolato dal suo stesso meccanismo misto di vanità e interessi personali”. Vale per oggi e per ogni periodo storico, quindi il personaggio è universale.
La regia ci tiene a sottolineare che si sta parlando di noi e chiede un segno alla costumista, Annalisa Di Piero: completi da uomo anni Venti, scarpe con le ghette, gonne accorciate al ginocchio. In questo modo la commedia di Shakespeare viene decisamente avvicinata ai tempi nostri ma resta in costume, abbastanza lontana da non produrre lo sgradevole effetto del cozzo fra la nostra contemporaneità e un testo scritto più di quattro secoli addietro, con meccanismi teatrali e forme, stile, modi, comportamenti di quell’epoca. Il resto è la beffa, gli scambi di persona, i travestimenti e gli equivoci, i servi scaltri, l’amore dei giovani e la lussuria dei vecchi.
Il primo ruolo femminile è di Francesca Bianco che interpreta l’ostessa (nell’originale shakespeariano sarebbe la governante) con un piglio da servetta molieriana e la malizia d’una Mirandolina; non lesina smorfie, facce, ammiccamenti e bene fa perché realizza una sorta di trasferimento di comicità da Falstaff alla sua Mistress Quickly equivalente al passaggio di potere dagli uomini alle donne. Ossia alle due comari, la signora Ford e la signora Page, interpretate rispettivamente da Gabriella Casali e Susy Sergiacomo che risolvono i ruoli con ilare crudeltà e aria volpina di professioniste della tresca. Il marito della signora Ford, Frank, è naturalmente un altro maschio babbeo che Ruben Rigillo restituisce con mestiere mentre Bardolfo e Pistola (Fabrizio Bordignon e Roberto Tesconi) sono i due servi feroci e vendicativi da cui parte la beffa. E qui forse manca qualcosa, un po’ di Commedia dell’Arte, un po’ di servidorame mercuriale a dare per contrasto maggior risalto al saturnismo falstaffiano estratto da Roberto e Carlo Emilio Lerici. La compagnia è numerosa, tredici attori in scena che lavorano bene, uno sforzo produttivo non leggero di questi tempi per uno spettacolo al quale augurare un meritato successo.