“Uno sguardo dal ponte” di Arthur Miller, con Massimo Popolizio anche regista e Valentina Sperlì. Al teatro Argentina di Roma
Corsi e ricorsi del mattatore
Uno sguardo dal ponte (A View from the Bridge) è un bellissimo titolo, indica che il dramma di Arthur Miller osserva un brulichìo d’umanità dall’alto di un ponte, in questo caso di Brooklyn, come un entomologo studia in laboratorio i moscerini della frutta. Una famiglia di immigrati italiani, i Carbone: il marito Eddie portuale, la moglie Beatrice e la nipote Catherine di cui l’uomo s’è innamorato.
Massimo Popolizio regista e interprete all’Argentina di Roma nel primo ruolo maschile ha deciso di dare al suo personaggio un’impostazione apparentemente un po’ fuori luogo in questo contesto tragico, trasformandolo quasi in una macchietta piena di smorfie e strampalerie gestuali, andando a cercare il comico finanche in certi movimenti da gag di varietà. Però il pubblico si diverte ai suoi artifizi gigioneschi e viene un certo stupore a sentire ridere di fronte alla rappresentazione d’una storia grave, anche pesante a momenti.
Tuttavia questo drammone molto novecentesco, andato per la prima volta in scena nel 1955 al Coronet Theatre di New York, contiene un buon vecchio schema della commedia tradizionale, ossia la lotta fra i vecchi e i giovani per accaparrarsi la ragazza. Come in Molière o in Goldoni. I fratelli Marco e Rodolfo, parenti di Beatrice, sono immigrati in America clandestinamente e vengono ospitati, anzi nascosti, dai Carbone. Ma Rodolfo e Catherine, che sono giovani, si infatuano l’uno dell’altra provocando la gelosia irrefrenabile di Eddie. Il “vecchio” peraltro si convince che il ragazzo è omosessuale, vergogna massima in una famiglia di immigrati italiani, e che vuole sposare Catherine solo per ottenere la cittadinanza americana. Quindi denuncia padre e figlio all’ufficio immigrazione per levarseli di torno.
La differenza con una commedia molieriana è che qui finisce male, quindi la scelta registica e interpretativa di Popolizio – alleggerire, sdrammatizzare, scherzare – si scontra poi con la tragedia, ossia con la morte. Popolizio ha preferito rischiare la contraddizione in cambio d’una risata. Giusto? Sbagliato? L’attore e regista sposta il baricentro del testo, pone sullo sfondo il significato del dramma, porta in primo piano l’arte sua e dei suoi compagni di scena. Però per quanto riguarda il rapporto fra tragedia e commedia, è almeno dal 1962, anno d’uscita del Sorpasso, che s’è definitivamente accettata la possibilità di fare ridere per tutto un film e alla fine mandare uno dei due protagonisti a sfracellarsi giù per la scogliera. Poi a realizzare una simile commistione bisogna essere capaci.
Certamente in questo allestimento si assiste a una risorgenza del vecchio capocomicato all’italiana in cui l’attore mattatore è il padrone dello spettacolo e fa del testo più o meno quello che vuole. Ugo Ojetti in Cose viste – 1928 – 1943 racconta che a proposito di Ermete Zacconi interprete di Osvald in Spettri, Ibsen osservò: “Zacconi recita sotto il mio nome un dramma, Spettri, che non è il dramma mio”. Zacconi s’era sistemato il personaggio a modo suo, come fa Popolizio con Eddie. Ci fu per anni a proposito della prova del grande attore nel dramma ibseniano tutta una polemica sugli stravolgimenti mattatoriali dei testi. Lo sfondo della diatriba era la lotta dei fautori della nascente regia, Silvio D’Amico in primis, contro gli eccessi del cosiddetto “grande attore” all’italiana.
Allora se lo spettacolo ha da essere faccenda di interpretazione più che di testo, d’attori prima ancora che di autore, questi hanno da essere particolarmente bravi e molto all’italiana, sarebbe a dire abili a governare il personaggio e a portarlo dove vogliono senza però distruggerlo (essendo l’Ottocento e anche il Novecento passati da quel dì), senza farne un fantoccio e un pretesto per la loro gloria d’artisti della scena. Tutto sommato Uno sguardo dal ponte è un dramma americano, pensato per tutt’altro genere di interprete, per gente addestrata in posti come l’Actors Studio. Lorenzo Grilli nella parte di Rodolfo offre una prova notevole, pare una via di mezzo fra un Gene Kelly di Little Italy e Nino D’Angelo, mette su un’aria di ragazzo allegrissimo, pieno d’una speranza nel sogno americano che lo porta a una gioia di vivere destinata a sbriciolarsi contro la tragedia. Michele Nani prende un po’ troppo sul serio il mattatorato consentito dalla regia e con voce stentorea e larghi gesti interpreta l’avvocato Alfieri come un Giove tonante in una commedia di Plauto. Valentina Sperlì nella parte della moglie Beatrice lavora invece con una misura e una grazia che si distinguono di fronte all’egemonia maschile insita nel dramma di Miller. Raffaele Esposito dà a Marco una giusta dimensione fisica di uomo forte con una recitazione aspra, ruvida, che ben si adatta al personaggio. Gaja Masciale fa Catherine con mestiere. In scena anche Felice Montervino (Tony), Marco Mavaracchio e Gabriele Brunelli (due poliziotti), Marco Parlà (Louis). Massimo Popolizio ha scelto di italianizzare Miller e ha realizzato con coerenza registica e interpretativa questa opzione. Tutto sommato Popolizio che riprende il mattatorato indica forse un movimento in corso nel nostro teatro. O in ricorso.