“Come un pacchetto vuoto di Chesterfield a mezzanotte” di Leonardo Jattarelli allo Spazio di Roma con Valeria Zazzaretta e Alessandro Gruttadauria
Il teatro, il jazz, un uomo e una donna
Davanti alla bottiglia di gin, a un tavolo del suo Rick’s Café Américain, Humprey Bogart in Casablanca ripensava ai suoi giorni d’amore a Parigi con Ingrid Bergman e fumava una Chesterfield. Come un pacchetto vuoto di Chesterfield a mezzanotte è un titolo perfetto per una storia fra un uomo e una donna da mettere in scena al teatro Lo Spazio di Roma trasformato in un locale jazz con un’orchestrina che suona dal vivo. Il divieto di fumare stavolta è terribile, ma al bar si può ordinare una buona bottiglia di gin da bere durante lo spettacolo. L’autore e regista Leonardo Jattarelli deve avere nella testa visioni alla ‘Round midnight di Bertrand Tavernier e posti di perdizioni bepop dove tutto ancora oggi potrebbe succedere, persino d’incontrare Dexter Gordon che suona il vecchio magnifico standard di Thelonious Monk accompagnato da una cantante nera che mastica gomma americana e intona: “Si fa sentire verso mezzanotte / verso mezzanotte / va abbastanza bene fin dopo il tramonto / All’ora di cena sono già triste / ma è verso mezzanotte che sto davvero male”.
È uno spettacolo di atmosfere, di luci morbide, di alcol d’amore, di sassofoni che brillano al buio. Non ha poi così tanta importanza se la storia che si narra è più o meno bene articolata, se la drammaturgia è scritta con maggiori o minori astuzie del mestiere, se la regia a quattro mani di Jattarelli stesso e di Carlo Oldani ha avuto difficoltà a risolvere alcuni passaggi, per esempio quando l’orchestra suona e i due protagonisti fanno finta di parlare fra loro, artifizio da vecchio teatro. Piuttosto che agita l’azione spesso è detta attraverso brevi monologhi degli attori che si rivolgono al pubblico, i cosiddetti “a parte”, per raccontare la propria versione dei fatti e i propri sentimenti. Tutto ciò rende meno scorrevole la pièce ma quel che in effetti Jattarelli chiede allo spettatore è d’abbandonarsi, di non far troppo caso alla giovane attrice Valeria Zazzaretta che recita con qualche perdonabile acerbità mentre Alessandro Gruttadauria appare più esperto, anche se una certa sua rigidità non s’attaglia a una notte dolce e amara in un locale jazz. L’importante è che s’incontrino, lui ha 45 anni, lei venti di meno; lui di mestiere fa il regista e lei, aspirante attrice, la cameriera in una birreria; lui s’innamora, lei forse. Fra una scena e l’altra il Jazz live quartet – pianista, sassofonista, contrabbassista e batterista – suona e lo spettatore beve un bicchiere di gin forte come nei peggiori bar di Liverpool.
Dal punto di vista maschile, corteggiare una ragazza di fronte a un’orchestra jazz può essere la più deliziosa e ardua passeggiata di montagna su un sentiero stretto fra desiderio e nascondimento, fra erotismo e galanteria, menzogna e sincerità. Ma le ardenti morbidezze del gioco amoroso, i temerari equilibrismi della seduzione, qui vengono presto sostituiti dal conflitto generazionale. È una distanza di mentalità, di modi, di aspirazioni. Per lui l’amicizia con una donna non esiste, per lei invece è uno strumento di conoscenza dell’altro. Visioni del mondo, qualità delle anime, educazioni sentimentali e quel non si sa cosa, quel modo peculiare d’ogni generazione di toccare la realtà, danno alla passione di ciascuno dei protagonisti tempi diversi. Qui la mano dell’autore si fa più stereotipata, i dialoghi s’arrischiano nei difficili territori dell’incomunicabilità, ai quali l’accesso è consentito a drammaturgie capaci di danzare nelle rarefazioni dei misteri umani. Inevitabilmente allora, il mondo dei due protagonisti si restringe, si rimpiccolisce nel convenzionale come di chi tenta le altezze ma, sopraffatto dalla mancanza di ossigeno, è costretto a scendere a valle. Eppure era il jazz, con i suoi tempi in cui immergere la messinscena, era un teatro jazzistico il segreto dello spettacolo.