“Pour un oui ou pour un non” di Nathalie Sarraute con Umberto Orsini e Franco Branciaroli. Regia, scene e costumi di Pier Luigi Pizzi. All’Argentina di Roma

Pour un oui ou pour un non

La mattanza dei toni

“Ah, bene”. In quanti modi si può dire “Ah, bene” (nell’originale francese “C’est bien, ça”)? In modo gioioso, sarcastico, complimentoso, ironico, compiaciuto, scherzoso, dispiaciuto, pensoso. La vita non sta nelle parole, sta nei toni con cui vengono pronunciate. Gli amori nascono e muoiono su un’intonazione; l’amicizia, l’affetto, le fratellanze, le alleanze, persino la giustizia e il letto vivono Pour un oui ou pour un non che è il titolo di una commedia a due personaggi scritta nel 1981 da Nathalie Sarraute, nata Natacha Tcherniak nell’anno 1900 a Ivanovo-Voznessensk, duecentocinquanta chilometri a nord-est di Mosca, scomparsa a Parigi nel 1999. In italiano “Per un sì o per un no” non contiene il senso che l’espressione possiede in francese del cambiamento d’una situazione per via d’una minuzia più piccola di un’inezia, di un niente fatto d’un sospiro.
Sarraute posa sul tono d’una parola il destino di un’amicizia fra due uomini, due sciamani della lingua interpretati da una coppia di stregoni teatrali, Umberto Orsini e Franco Branciaroli. La scenografia di Pier Luigi Pizzi, che firma anche la regia e i costumi, è un salone con tre librerie bianche lunghe come torri riempite di volumi dalle coste bianche. Una scala nera che serve gli scaffali più alti indica che i libri non sono decorativi, che il padrone di casa è un intellettuale e li prende, li usa. Le poltrone Wassily in tubi di acciaio di Marcel Breuer informano che l’appartamento è abitato da una persona di gusto moderno, sicuro e classicamente novecentesco, abbastanza agiato da potersele permettere. Davanti a un tavolo che sostiene una lampada di design, un divano rosso cupo posto al centro della scena dà una nota di colore a uno spettacolo tutto costruito sulle intonazioni. La scelta dei due interpreti sembra basata sulla qualità delle loro voci, oltreché sulla bravura: Orsini ha una voce di petto dal registro basso che risuona nella cavità addominale; Branciaroli invece lavora più in alto, praticamente “in maschera” e con un timbro nasalizzato. Però c’è un rovesciamento perché i caratteri dei due personaggi, i quali non hanno nome, differiscono da quanto ci si aspetta. Alla voce profonda di Orsini corrisponde un tipo fisicamente mobile e scattoso; a quella più alta di Branciaroli una personalità pacata, a volte imperturbabile. Eppure nei due attori il fondamentale rapporto voce-movimento è del tutto armonioso secondo il prezioso consiglio che Shakespeare dispensa attraverso una battuta di Amleto: “Adatta il gesto alla parola, e la parola al gesto, non superare la misura naturale”. Dal loro eloquio fluisce un italiano senza pecche, perfettamente pronunciato, con tutte le finali a posto, a consolare lo spettatore teatrale che molto spesso deve sopportare attori anche potenzialmente bravi ma dalla pronuncia scombinata, difettosa, sbrodolosa, dalla battuta che casca per terra. Orsini e Branciaroli invece portano la parola fino in fondo alla platea dell’Argentina di Roma, fin su in piccionaia, e senza mai forzarla né gridare. È per causa loro se poi si esce da teatro pensando certe impronunciabili banalità: “Ah signora mia, non esistono più gli Amleti di una volta.”
Su questa impostazione recitativa e interpretativa, su questa tecnica in grado di reggere la gran parte dei testi che costituiscono il repertorio occidentale, si appoggia il raffinato dramma di Nathalie Sarraute, magnifica esponente del “nouveau roman”, o meglio ancora scrittrice di antiromanzi, secondo la precisa definizione di Jean-Paul Sartre. I due amici senza nome sono impegnati in una conversazione che per il tono con cui viene pronunciata la battuta “Ah, bene”, si trasforma in una discussione, poi in un conflitto, infine in duello. La loro amicizia cade di fronte a malintesi ed ambiguità passate, a toni, nuance, sfumature che alterano la comunicazione e producono profonde e invisibili ferite, sanguinamenti nascosti dell’orgoglio, lesioni gravi alla stima e alla fiducia reciproche. Per scrivere dialoghi siffatti e pescare  nel mare del linguaggio i grandi banchi di parole ci vogliono un’abilità e un intuito da rais di tonnara. E due attori esperti nella mattanza dei toni.

Marcantonio Lucidi,
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