“La storia” dal romanzo di Elsa Morante, drammaturgia di Marco Archetti, regia di Fausto Cabra. Con Franca Penone, Alberto Onofrietti e Francesco Sferrazza Papa. Al Vascello di Roma

La storia

La macchina che frantuma gli uomini

Si vede bene in scena che La storia, lo spettacolo al Vascello di Roma su drammaturgia di Marco Archetti liberamente ispirata al romanzo di Elsa Morante, è un omaggio a Luca Ronconi “con le sue lucide architetture e vivisezioni analitiche”, come scrive il regista Fausto Cabra in una nota. Però per fortuna non vi è ombra di ronconimento dei tre bravi attori in scena Franca Penone, Alberto Onofrietti e Francesco Sferrazza Papa. Non si nota insomma la concezione dell’attore quale oggetto corporeo da muovere a mo’ di macchina teatrale in virtù di un logos della mēkhanḗ contro “le secrezioni di sentimenti” come le chiamava Ronconi. La mēkhanḗ in questo allestimento è altrove.
Certamente l’operazione è assai ronconiana, intendendo in questo caso la messinscena di un testo irrappresentabile dopo averlo sezionato come un cadavere per effettuarne  l’autopsia e affidarlo poi agli attori incaricati della rianimazione. In un’intervista del 1973 Ronconi affermò: “Non mi importava un cavolo della storia. Mi piaceva vedere come funzionava la scaletta, il meccanismo teatrale. La psicologia in letteratura non mi interessa”. Di fronte all’impossibilità di addomesticare scenicamente il romanzo della Morante, Cabra propone un artificio narrativo che è, come direbbe Ronconi, una strategia di comunicazione e una soluzione estetica: la strategia si basa sul personaggio di una viaggiatrice bloccata in aeroporto da uno sciopero che nell’attesa legge La storia e raffigura nella propria mente gli avvenimenti raccontati. Quindi lo spettatore vede le scene immaginate dalla signora (e questo è paradossale se si pensa che Ronconi detestava quello che succede “lì dentro”, nella testa di una persona). Si crea così una distanza perché Cabra media la propria visione del testo attraverso un personaggio che rappresenta un bisturi per lo scienziato teatrale intento alla vivisezione del testo. Da qui la soluzione estetica, ossia evitare la trappola di rifare scenicamente il romanzo, bensì proporre uno dei tanti viaggi possibili all’interno delle pagine morantiane. E l’itinerario scelto ha un fondamento filosofico perché riguarda la concezione della Storia, la grande Storia come macchina frantumatrice degli uomini e delle loro vicende personali (la “petite histoire”, come dice la storiografia francese). A questo punto, il regista è libero. Può usare quel che più lo interessa e ritiene utile dal punto di vista teatrale, poetico ed estetico. È sempre giustificato: lo spettacolo diventa metafora di questa macchina della Storia che trita qualsiasi personaggio ed evento; inoltre, sotto l’aspetto pratico della messinscena, la notevole quantità di figure del romanzo può essere sintetizzata da tre soli attori.
Il paradosso sta nel fatto che la libertà permette una certa fedeltà all’originale perché se si può scegliere nella molteplicità di possibilità, la strada migliore resta quella di un’adesione, nei limiti della natura del teatro. Significa che Cabra realizza l’aspetto più importante del progetto artistico in casi simili: restare leale allo spirito del romanzo – spirito che va oltre la lettera e si sprigiona dall’unicità, dall’aura del romanzo – ed agire in una sorta di soggettività oggettiva. Si può dire una cosa in tanti modi, ma ciò che conta è dire quella cosa. La forma insomma è mortale, il contenuto è immortale.
In questo spettacolo, la Storia è la parola moderna per indicare il Fato. La famiglia romana di Ida Ramundo, ebrea per parte di madre, e dei suoi due figli Nino e Giuseppe (detto Useppe, nato dallo stupro di un soldato tedesco) rappresenta il cibo umano nella greppia della Storia, la quale senza sosta divora masse negli anni di ambientazione del romanzo, fra il 1941 e il ’47, nel corso della Seconda guerra mondiale e del primo dopoguerra. Il racconto è complesso, pieno di svolte e di personaggi ma Cabra lo svolge in un modo semplice, con un’implacabile continuità nella successione degli eventi, come se avesse particolare interesse a mostrare attraverso l’azione teatrale l’inesorabilità delle res gestae, dei fatti accaduti, piuttosto che la moralità di un giudizio indotto da una historia rerum gestarum, ossia da una narrazione storiografica che è operazione intellettuale, non artistica. D’altronde il regista sta teatralizzando un romanzo, non un saggio storico. È la macchina che conta, non scenografica o ingegneristica, ma evenemenziale, la mascella di ferro che mastica esseri umani con i suoi denti che sono gli avvenimenti. Quindi il palcoscenico è assai spoglio, una panchina, un tavolo, otto sedie spaiate (scene e costumi di Roberta Monopoli). È l’uso delle luci (di Gianluca Breda e Giacomo Brambilla) a dare ritmo, ricchezza e significazione all’immagine scenica. Quando Ida fa l’amore, il suo corpo è toccato e accarezzato da un fascio di luce bianca che lo indaga e lo perfora quasi. La parola “treno” è sottolineata da tre neon che si illuminano alternativamente a suggerire il movimento. Tutta la rappresentazione è cosparsa o attraversata o accoltellata di luci. Dei tre attori in scena i nomi vanno ripetuti – Franca Penone, Alberto Onofrietti e Francesco Sferrazza Papa – a riconoscimento della loro arte interpretativa e della loro capacità di stare in una regia così semplice, quindi così complessa da realizzare. Possiedono un’ampia gamma di possibilità recitative, di toni, di sfumature, di corde. Violini attorali al servizio di una regia che sa bene cos’è un interprete e come va accompagnato nella strutturazione dello spettacolo.

Marcantonio Lucidi,
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