“Il figlio” di Florian Zeller, regia di Piero Maccarinelli, con Cesare Bocci, Galatea Ranzi e Giulio Pranno. Al Parioli di Roma
Nel bene del padre il male del figlio
Gli artisti hanno i loro periodi e questo del regista Piero Maccarinelli potrebbe chiamarsi trilogia delle generazioni. La sua messinscena de Il figlio di Florian Zeller è attualmente in programmazione al Parioli di Roma dopo che a metà gennaio aveva proposto un altro testo basato sull’incomunicabilità tragica fra adolescenti e genitori (Agnello di Dio di Daniele Mencarelli). Inoltre di Zeller, Maccarinelli mise in scena nel 2017 un altro dramma, Il padre, che raccontava una storia di Alzheimer e fa a sua volta parte di una trilogia dell’autore francese il cui terzo titolo è La madre.
Maccarinelli sta sul conflitto generazionale in un interno familiare, quindi non come questione politica ma come incapacità o impossibilità di comprensione fra colui che è venuto prima e colui che viene dopo. Il senso del dramma di Zeller potrebbe essere questo: dal grembo materno nasce il figlio, dal ventre della famiglia esce l’uomo. Questa seconda gestazione dura anni, è piena di insidie, sottoposta assai più della prima a pericoli interni ed esterni, facilmente volge al fallimento. Piero (interpretato da Cesare Bocci) ha lasciato la moglie Anna (Galatea Ranzi) ed è andato a vivere con Sofia (Marta Gastini), dalla quale ha appena avuto una bambina. L’azione comincia con il diciasettenne Nicola (Giulio Pranno) che non vuole più stare con la madre ma chiede di andare a vivere assieme al padre e alla sua nuova compagna.
Si scopre che il ragazzo non frequenta la scuola da tre mesi. Tutte le mattine si alza e fa finta di andarci, invece bighellona per la città. Ora, nella realtà è impossibile che in famiglia non si accorgano di niente, perché in un liceo francese come in uno italiano la sorveglianza è attiva e se uno studente fa troppe assenze, assai prima di tre mesi parte la telefonata di verifica ai genitori. Inoltre questa non è una situazione di banlieue degradata, ma di agiatezza e si suppone che il giovane vada in una scuola ben frequentata e controllata. Qui l’autore si affida a una sospensione dell’incredulità: in un contesto naturalistico sarebbe una richiesta da fare senza che lo spettatore se ne accorga. Però vale la pena di dare credito al dramma perché è ben costruito nelle psicologie e nei dialoghi e perché “A tutti i padri d’un figlio d’oltre quindici anni, Florian Zeller conficca uno specchio nel cuore”, come scrive in modo un po’ enfatico il critico dell’Express, il quale si unisce al generale encomio dei suoi colleghi sulla stampa francese.
Vero che l’argomento è delicato e difficile da affrontare teatralmente. Il figlio ha sofferto molto la separazione e in una mente d’adolescente labirintica e colma di emozioni, sentimenti, pensieri, impulsi, il dolore è come il gesso per i topi che una volta ingerito si solidifica e uccide. Ormai i neuroscienziati sanno che il cervello di un giovane sotto i 25 anni è diverso da quello di un adulto e la distanza fra il ragazzo e i genitori è drammaturgicamente resa da Zeller attraverso allontanamenti progressivi intervallati da illusori riavvicinamenti, scoppi d’ira violenta, perfino uno scontro fisico fra padre e figlio, alternati a pianti e momenti affettuosi. Non solo il ragazzo ha un cervello diverso, anche i grandi sono degli alieni: altrettanto disgraziata è la rigidità mentale dei genitori, la compressione del pensiero all’interno di schemi prestabiliti, l’assenza di dubbi se non quelli generici sulla loro qualità di educatori.
Sale l’angoscia di Anna, Pietro e anche di Sofia che si è vista arrivare in casa un adolescente che percepisce come sempre più pericoloso a mano a mano che Nicola s’immerge nella sofferenza psichica. Una serie di episodi da non rivelare sostengono l’azione e l’evoluzione dei personaggi ma il filo che tiene unito il dramma è il bene. I genitori voglio il meglio per il figlio – lo vedono impegnato in studi giuridici, per esempio – e il figlio è gentile con loro, è affezionato, preferirebbe non deluderli però vuole fare lo scrittore. Come si sa, la strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni, ma qui la crisi, inziata con la separazione dei genitori, si allarga sempre di più per l’eccesso di bene che si vorrebbe per l’altro e soprattutto dall’altro. Il mondo frana per eccesso di bontà. Una bontà utilitaristica però. Dal “gene egoista”, titolo di un famoso saggio di Richard Dawkins, si passa al bene egoista, dall’uomo come macchina programmata per la sopravvivenza dei geni all’uomo come sistema automatico di trasmissione di modelli culturali vincenti, anch’essi probabilmente atti alla preservazione della linea genetica familiare.
Un gioco di pannelli luminosi segna i luoghi deputati dell’azione che si svolge in una scenografia di Carlo de Marino funzionale ma non fredda anche grazie alle luci di Javier Delle Monache. L’impressione che si vuole dare è di benessere non sfacciato in un ambiente relativamente neutro che non distragga l’attenzione dello spettatore dall’azione. Per Maccarinelli la regia non si deve vedere, le psicologie vanno rese interpretativamente con chiarezza di modo da esaltare il rapporto fra i personaggi. Queste sono messe in scena in cui non si sente l’eco delle indicazioni registiche, del “entra da destra”, “avanza in proscenio”. I movimenti sono piuttosto precisi, sempre necessari, in palcoscenico c’è ordine, rigore, si potrebbe anche percepire un certo distacco in questo modo organizzato e composto di fare teatro, però funziona. Gli attori sono messi in condizioni ottimali e la sensazione è di osservare il risultato di un inganno efficace: gli interpreti sono liberi di lavorare come vuole la regia.
Cesare Bocci e Galatea Ranzi, artisti di valore, possiedono una scioltezza, una aisance per dirla alla francese, nello stare in scena che nasconde eventuali automatismi asettici del professionismo. Sanno come si fa. Quindi la sorpresa è Giulio Pranno, venticinque anni, otto in più del suo personaggio Nicola, che a quell’età non sono pochi, ma è, come si direbbe in Accademia nazionale d’un candidato rifiutato perché troppo bravo: “Già pronto per il mestiere”. La parte di Sofia, secondo ruolo femminile non particolarmente esaltante, a Marta Gastini che lo interpreta con cura. In scena anche Riccardo Floris e Manuel Di Martino in due ruoli minori da non specificare per evitare di rivelare le soprese dell’azione.