“I Viceré”, libero adattamento dall’omonimo romanzo di Federico De Roberto, regia di Guglielmo Ferro. Interprete, fra gli altri, Pippo Pattavina. Al Quirino di Roma
Principessa, non ci sono più gli stallieri di una volta
Al barista che il mattino dopo mentre fa il caffè chiede com’era lo spettacolo al Quirino di Roma, I viceré, lo spettatore risponde che l’attore protagonista, Pippo Pattavina, era molto bravo ma che il testo non andava tanto bene: “Hanno adattato un famoso romanzo di Federico De Roberto. Hai presente Il gattopardo? Ecco, questo è stato pubblicato sessant’anni prima, a fine Ottocento. I romanzi, già è difficile farli al cinema, figuriamoci a teatro”. Quindi il barista sintetizza: “Bravo il cavallo ma male il cavaliere”. “Eh no – risponde lo spettatore – il cavaliere è l’attore, il cavallo è il testo”.
A ripensarci però, a teatro chi fa il cavallo e chi il cavaliere? Forse ha ragione il barista, è Pattavina nel ruolo di don Blasco Uzeda che si porta sulla schiena lo spettacolo, altrimenti fra l’apertura e la chiusura del sipario non sarebbe successo niente. Salvo una serie di tableaux vivants costituiti da figurine di un’aristocrazia siciliana oleografica. E anche involontariamente comica, con il senno di poi. Nell’ultimo capitolo del romanzo di De Roberto si legge: “Quando c’erano i Viceré, gli Uzeda erano Viceré; ora che abbiamo i deputati, lo zio va in Parlamento”. Da decenni ormai i vecchi zii sono stati buttati fuori dal Parlamento, sostituiti da una classe di arrivisti assai più rapinatrice e corrotta dell’antica nobiltà. Sempre meglio un vecchio ricco – possidente da almeno un paio di secoli, quindi non gli Agnelli – di un nuovo ricco perché l’ingordigia, il ricordo della fame e la paura delle pezze al sedere sono senza fondo. La frase che chiude il romanzo è questa: “No, la nostra razza non è degenerata: è sempre la stessa”. Invece, nel corso del Ventesimo secolo è degenerata. Mentalmente e geneticamente: gli stallieri che rinnovavano il sangue si sono fatti rari, sono emigrati in alt’Italia e i nobili a forza di sposarsi fra cugini hanno partorito figli con la coda a cavaturaccioli e il cervello a collo di bottiglia. Alla fine, la stirpe esausta è stata sostituita dai suoi servi, i mafiosi. Chissà chi ci ha rimesso di più, se la nobiltà siciliana o la canaglia, come Consalvo Uzeda nel capitolo finale chiama il popolo. Sicuramente ci ha rimesso il nord, conquistato dalle mafie del sud secondo un contrappasso storico per il quale la criminalità meridionale si è insediata nelle terre della criminalità settentrionale dei colonizzatori comandati dall’aristocrazia savoiarda, la peggiore d’Europa. Naturalmente questo è Novecento e I Viceré, pubblicato nel 1894 nulla ne può riportare. Ma dentro quest’opera ci sono molti elementi utili a una riflessione sulla storia successiva del paese. Leonardo Sciascia scriveva nel ‘77 in un articolo dal titolo Perché Croce aveva torto: “Non è dubbio, dunque, che I Viceré sia il prodotto di una delusione, se non addirittura di una disperazione, storica; e che l’ironia ne sia il filo conduttore; un’ironia che nasceva dal confronto e contraddizione tra gli ideali cui si apriva l’Italia appena unificata (…) e la loro effettuale inattuazione e inattuabilità, già evidente negli anni in cui De Roberto imprendeva a scrivere il romanzo, ma per quanto evidente, coperta o dalla volontà di non lasciare cadere le illusioni o da una specie di omertà, piuttosto diffusa nella «letteratura della nuova Italia», che nel fascismo finirà per trovare il suo alveo congeniale”. Nel sesto e ultimo volume della sua omertosa Letteratura della nuova Italia, Benedetto Croce stroncò I Viceré – “Un’opera pesante, che non illumina l’intelletto come non fa mai battere il cuore” – condannando il romanzo a un lungo ostracismo dell’intellighentsia italiana che colpì, per fortuna brevemente, anche Il gattopardo di Tomasi di Lampedusa. Al punto che nel glorioso e prezioso Dizionario Bompiani delle opere e dei personaggi di tutti i tempi e di tutte le letterature in nove volumi (più i quattro degli autori), la voce dedicata al capolavoro di De Roberto prende poco più di mezza colonna. Nella pagina precedente, Il vicario di Wakefield, il fondamentale, imprescindibile, imperituro romanzo dell’irlandese Oliver Goldsmith (1728 – 1774) occupa oltre due colonne. A dimostrazione dell’attenzione riservata a I Viceré, l’autore della voce Carmelo Sgroi (1893 – 1952), negli anni suoi critico letterario di peso, rinomina il principe Giacomo Uzeda e lo chiama Gaspare, confondendolo con Don Gaspare Uzeda, proprio il deputato al Parlamento e senatore del Regno.
Questi sono solo alcuni dei travagli che il capolavoro di De Roberto ha subito a causa della fangosa coscienza nazionale sul Risorgimento, l’Unità d’Italia, la questione meridionale, eccetera. Ed è vero che la storia di un libro è diversa dalla storia nel libro, però liquidare teatralmente un racconto sterminato, stipato di personaggi, di eventi e di temi come I viceré a due orette di risse familiari impomatate di considerazioni cinico-politico-storiche sulla razza padrona e sulla Sicilia immobile riprese qua e là dal romanzo, significa spacciare le schegge di cioccolato per la torta.
Il romanzo si apre con la morte e il funerale di Teresa Uzeda principessa di Francalanza, la matriarca. La quale lascia un testamento che scontenta tutti, innesca la lotta fra gli eredi e condiziona i destini di una famiglia di odiatori, frodatori e traditori. La grande trovata di De Roberto è di annunciare all’inizio la fine della protagonista, fisicamente assente dalla prima pagina benché continui a produrre effetti fino all’ultima.
La riflessione sul matriarcato siciliano, questione fondamentale per capire sia gli Uzeda che le peculiarità sociali e antropologiche della popolazione isolana (non solo aristocratica), è totalmente assente nell’allestimento. La riduzione teatrale, al romanzo “liberamente ispirata” (come si riporta in locandina senza citare il nome di chi ci ha messo le mani) privilegia la figura del cognato di Teresa, padre Don Blasco, e mostra la vicenda (molto sintetizzata) attraverso i suoi occhi. Scriveva Carlo Terron nel 1969 in una recensione d’un adattamento teatrale del romanzo firmato da Diego Fabbri e diretto da Franco Enriquez: “Fabbri (…) ha specialmente conferito simpatia e un vago sentore protestatario e positivo al personaggio più estroso e rilevato del romanzo, l’incontinente, reazionario, furioso, sardonico e furfantesco Don Blasco, empio frate benedettino, canaglia sì ma, almeno, senza le tortuosità, gli infingimenti, le ipocrisie dei suoi innumerevoli parenti, e che Turi Ferro interpreta in maniera ammirevole”. Turi Ferro, scomparso nel 2001, è il padre di Guglielmo Ferro, regista dello spettacolo di oggi. Tanto vale continuare a seguire Terron anche per questo allestimento: “Non è colpa di nessuno, ma una narrazione nata per la pagina – e tanto più quanto essa è riuscita ed importante – diventa inevitabilmente un pessimo affare, nel meno peggiore dei casi, un’altra cosa, quando venga traslocata e costretta nelle dimensioni del palcoscenico. Per poco che si debba pagare, sono lacerazioni, irrigidimenti, fratture, superficialità, oscurità, spostamenti di prospettive, alterazioni di tono e via discorrendo. Tra il racconto e il dramma, c’è la stessa differenza che corre fra un corpo vivo e caldo e la sua morta e fredda radiografia”. E siccome non è colpa di nessuno, ecco i nomi di tutti gli interpreti, oltre al già citato Pippo Pattavina e a Sebastiano Tringali che mostra il suo valore nel ruolo di Giacomo: Rosario Minardi, Francesca Ferro, Rosario Marco Amato, Nadia De Luca, Giampaolo Romania, Francesco Maria Attardi, Elisa Franco, Pietro Barbaro, Giovanni Fontanrosa, Alessandra Falci, Giuseppe Parisi.