“Pupo di zucchero”, uno spettacolo scritto e diretto da Emma Dante liberamente ispirato a “Lo cunto de li cunti” di Giambattista Basile. All’Argentina di Roma
‘A vita è ‘n affacciata ‘e fenesta
Chi apprezza i generatori automatici di immagini, troverà piacere ad assistere a Pupo di Zucchero di Emma Dante, in scena all’Argentina di Roma. Altri che invece sono più interessati ai generatori automatici di spettacoli potrebbero provare stupore alla lettura della locandina: l’allestimento è una produzione Sud Costa Occidentale in coproduzione con Teatro di Napoli – Teatro Nazionale Scène Nationale Châteauvallon-Liberté / ExtraPôle Provence-Alpes-Côte d’Azur / Teatro Biondo di Palermo / La Criée Théâtre National de Marseille / Festival d’Avignon / Anthéa Antipolis Théâtre d’Antibes / Carnezzeria.
Di fronte a una tale folla di istituzioni teatrali e visto che il lavoro della Dante è tratto da Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile, ci si aspetterebbe in scena una magnificenza alla Roberto De Simone de La gatta Cenerentola. Evidentemente i produttori francesi e italiani sono fautori del grotowskiano teatro povero perché la messinscena è fatta di quasi niente: ribalta vuota per buona parte della rappresentazione, ogni tanto appaiono un letto pieghevole, due sedie, un tavolo, uno scrittoio da bambino, una poltroncina, un vaso di fiori. E ci sono dieci sculture di Cesare Inzerillo ispirate alle famose mummie custodite nelle catacombe dei Cappuccini di Palermo. Le sculture rappresentano i personaggi dello spettacolo che sono dei morti vestiti di tutto punto come nel cimitero dei frati i commercianti e i borghesi nei loro abiti domenicali, gli ufficiali dell’esercito in uniforme di gala, le giovani donne decedute prima di maritarsi e coperte con il loro abito da sposa, i prelati, i bambini. Allora la bambola che a un certo momento appare in scena ricorda per analogia Rosalia Lombardo, morta a due anni di polmonite nel 1920, salma moto nota, una delle ultime ad essere ammesse nella cripta, che giace nella Cappella di Santa Rosalia in fondo al primo corridoio, sulla sinistra.
Questo è uno spettacolo sulla morte, quindi sulla vita, barocco e nella sua moltiplicazione di immagini concettistico, attinente cioè a una tecnica letteraria secentesca secondo la quale il maggior pregio della poesia risiede nella raffinatezza dei “concetti”, ossia metafore e analogie ricercate e stravaganti. Il barocco ritiene che la via più breve per andare dall’inizio alla fine di un ragionamento non sia la logica ma la fantasmagoria, non la luce della ragione discorsiva ma l’oscurità dell’illusionismo persuasivo. Quindi per capire cosa succede in scena, sarebbe necessario arrivare allo spettacolo preparati, avendo letto del Basile il terzo trattenimento della quinta giornata, Pinto smaulo (Malto splendente) dove si narra della figlia d’un mercante, Betta, che non si vuole sposare e da un impasto di zucchero, mandorle e acqua di rose si fa la statua di un bellissimo ragazzo. Emma Dante sostituisce la fanciulla con un vecchio ‘nzenziglio e spetacchiato, raggrinzito e spelacchiato, che si mette a lavorare la pasta di zucchero che “nun cresce” nel giorno dei morti. Forse bisognerebbe leggere anche il terzo racconto della seconda giornata, Viola, una delle tre figlie di Colaniello, così bella da aver fatto innamorare il principe Ciullone. Si suggerisce di dare un’occhiata anche al romanzo di Rainer Maria Rilke citato nelle note di regia, I quaderni di Malte Laurids Brigge, racconto di impronta espressionista di un giovane che alla viglia della Prima guerra mondiale cerca per le vie e le piazze di Parigi il significato della vita attraverso la coscienza della morte.
Emma Dante però, non paga di spiegare di tutto ciò poco e niente nello spettacolo, rielabora, manipola, altera, depista, di modo che lo spettatore non si trovi con la drammaturgia, non capisca e si rassegni ad abbandonarsi al fluire delle immagini sceniche. E qui si divide il pubblico: ci sono gli spettatori plaudenti fino ad accaldarsi dell’ammucchiamento di visioni come bastoni da passeggio in una giara di terracotta all’entrata d’un rigattiere; e gli altri che di mente neoclassica settecentesca amano invece l’illuministica chiarezza della consequenzialità. Però è vero che qui si parla della morte, che è al contempo logica e assurda, ovvia e incomprensibile, diretta nel ghermire ma contorta nel giungere.
La morte a sud e soprattutto in Sicilia non è un tabù, non porta silenzio e imbarazzo. Il defunto sta sdraiato sul letto e ai familiari, gli amici, i vicini che vengono per l’ultimo saluto s’offrono liquori e cibi vari. La vedova e i figli ricevono, i presenti ingombrano il corridoio, si chiacchiera, si dà una mano, si consola, si sta, si va e si viene fra cucina, salotto, sala da pranzo e stanza del morto. Il gran sole di Palermo, di Catania, di Siracusa viene tagliato a raggi sottili dalle persiane accostate e sul morto adagiato nell’ombra della camera ardente, cupa di ceri accesi, si posa un lungo ferro di mezzogiorno bianco come ne proietta sullo spettacolo il disegnatore luci Cristian Zucaro. “Ma anche presso i moribondi si deve essere stati, si deve essere rimasti presso i morti nella camera con la finestra aperta e i rumori che giungono a folate. E anche avere ricordi non basta”. Questo è Rilke. E quest’altro invece è il Basile, il quale racconta di Betta, che il padre vuol vedere maritata: “Se ’nchiuse dintro na cammara e commenzaie a fare na gran quantità de pasta d’ammennole e zuccaro, ’mescata co acqua rosa e sprofummo e commenzaie a fare no bellissimo giovene, a lo quale fece li capille de fila d’oro, l’uocchie de zaffire, li diente de perne (perle,ndr.), le lavra de robine e le dette tanta grazia che no le mancava se no la parola”.
Tutto ciò Emma Dante lo mischia con una tradizione meridionale di organizzare il due novembre libagioni in onore dei parenti defunti che portano ai bambini regali dal regno dei morti in cambio di dolci e biscotti antropomorfi a simboleggiare le loro anime dipartite. Il vecchietto ‘nzenziglio e spetacchiato invita a cena i defunti suoi nella notte fra il primo e il due novembre e lascia la porta aperta per riceverli. Eccoli sulla scena come stanno scritti nel programma di sala perché non si capisce molto di quanto dicono in napoletano stretto: “Mammina, una vecchia dal core tremmolante, il giovane padre disperso in mare, le sorelle Rosa, Primula e Viola “tre ciuri c’addorano ‘e primmavera”, Pedro dalla Spagna che si strugge d’amore per Viola, zio Antonio e zia Rita che s’abboffavano ‘e mazzate, Pasqualino il figlio adottivo”. Qui sta la drammaturgia di Emma Dante e anche se non si capisce tutto s’intende benissimo: il vecchio parla con i morti, loro sono i suoi lari, è dell’anima sudista conversare con i familiari che abitano l’aldilà, quindi a un dipresso, dall’altro lato della strada, ché a lanciare loro una voce vengono a far compagnia ai vivi e si parlotta di ciò che potrà essere e soprattutto di ciò che è stato. La morte riempie la giornata di ricordi. ‘A vita è ‘n affacciata ‘e fenesta ma il generatore automatico di immagini funziona bene assai.
In scena: Carmine Maringola (il Vecchio), Nancy Trabona (Rosa), Maria Sgro (Viola), Federica Greco (Primula), Sandro Maria Campagna (Pedro), Giuseppe Lino (Papà), Stephanie Taillandier (Mammina), Tiebeu Marc-Henry Brissy Ghadout (Pasqualino), Martina Caracappa (zia Rita), Valter Sarzi Sartori (zio Antonio).