“Happy hour” di Cristian Ceresoli, regia di Simon Boberg, con Silvia Gallerano e Stefano Cenci. Al teatro Basilica di Roma
I vecchi nell’acquario e la logica dell’insensatezza
Di Cristian Ceresoli, Silvia Gallerano aveva già fatto La merda, spettacolo di molto successo, e adesso dello stesso autore interpreta assieme a Stefano Cenci Happy hour al teatro Basilica di Roma.
Lo spettacolo è un horror politico e sociale, non distopico né ucronico, ma in un certo modo irrealmente realistico nelle sue iperboli. Bella la vita quando tutti devono essere obbligatoriamente felici, contenti, gioiosi, allegri, gai, festosi, giulivi, entusiasti e saltellare tripudiando di piacere in mezzo a una società liberista totalitaria che deporta i perdenti nelle camere a gas e imprigiona gli anziani dentro ad acquari senza acqua. Si possono andare ad ammirare come si va a vedere orche e delfini.
Gallerano e Cenci interpretano Ado e Kerfuffle, una sorella e un fratello tredicenni vestiti d’una canottiera rosso bordeaux e di una mutanda blu che girano su delle pedane Fomet disposte a quadrato con un buco in mezzo di modo che possano sempre cascarci dentro e ricordare agli spettatori che stanno nella stessa situazione, in trappola. Ado vuole diventare una famosa soubrette e Kerfuffle un calciatore, un bomber, ma non ha il fisico e agli allenamenti si butta nel fango per far credere al padre che gioca. I genitori sono assenti sia in scena che nella vita dei due ragazzini, i quali li evocano ma, con uno scambio grottesco, il ragazzino rifà la madre e la ragazzina il padre. I due parlano e parlano senza un vero e proprio filo narrativo. Se la vita non ha senso, anche il racconto della vita è insensato. E una famiglia che bada solo a una quotidianità di noia e d’un magro tirare a campare spacciato per benessere, lietezza, esultanza, vivacità, non solo non ha nulla da dire ma non è descrivibile se non a spizzichi e bocconi, tutta sbrindellata com’è, brandelli però da lanciare in aria a mo’ di coriandoli perché qui stiamo nella festa del gran carnevale che dura tutto l’anno, uno scherzo tristissimo, una lingua di Menelik che fischia a un funerale.
In questo spettacolo tutto è esagerato e i due attori, diretti dal regista danese Simon Boberg, si scatenano in una sorta di atletismo recitativo che pare lasciato al caso, invece è ordinatissimo, molto rigoroso, con movimenti sovente provenienti da esercizi di laboratorio, provati e riprovati, effettuati in sincronia o in studiata asincronia. Bravissimi, veloci e precisissimi nei gesti, tecnicamente molto dotati, ma artisti, creatori, e non semplici macchine performative, si caricano in spalla un testo sulla carta buono e pieno di possibilità che diventa teatro grazie a loro. Su e giù, giù e su dal buco, a destra e a sinistra sulle pedane, a sinistra a destra, camminare, danzare, saltare. Oltre il termine dello sfinimento. E parlare, parlare, parlare: “Dobbiamo ballare / Dobbiamo ballare. / Tutte le mattine. /E tutte le sere. / E dobbiamo sorridere. / Chi non sorride vien punito. / Chi protesta pure. / E ogni giorno passa uguale”. Tutto logico e insensato proprio come i tempi che viviamo.