“Nel vuoto” di Giuseppe Manfridi, regia di Ennio Coltorti anche interprete assieme a Erica Intoppa e Andrea Pannofino. Al teatro Stanze segrete di Roma
Il prigioniero della politica
Nel 1986 Ennio Coltorti inaugurò la prima edizione della sua famosa rassegna Attori in cerca d’autore con un testo di Giuseppe Manfridi intitolato Nel vuoto. Nel corso degli anni, la rassegna diventò uno dei maggiori appuntamenti del teatro italiano per il suo impegno a favore dei nuovi drammaturghi e dei giovani artisti della scena, molti dei quali sarebbero diventati importanti e acclamati. Una ventina d’anni dopo, Attori in cerca d’autore chiuse per il progressivo prosciugamento dei fondi pubblici e Coltorti come ultimo spettacolo di quei due decenni fecondi ripropose Nel vuoto che a quel punto cominciava ad essere un titolo emblematico.
Adesso il regista ha rimesso in scena il testo, da lui stesso interpretato assieme a Erica Intoppa e Andrea Pannofino, proprio nel momento in cui annuncia che alla fine dell’anno dovrà chiudere il suo teatro Stanze segrete, caso di un posto da cinquanta spettatori al massimo (se lo spettacolo usa un limitato spazio scenico) che da anni lavora su proposte molto raffinate.
Il dramma di Manfridi racconta di un signore d’una certa età che si ritrova con una coppia di giovani sposi in montagna, a duemilacinquecento metri di quota, su un belvedere meravigliosamente panoramico. In fondo alla valle c’è un vecchio carcere che ormai detiene un solo prigioniero, un pescatore, un uomo di mare condannato all’ergastolo. Tale è la nostalgia per il suo mare che ogni tanto il carcerato emette un suono, una specie di fischio che con il gioco del vento e dell’eco fra le pareti delle montagne somiglia alle grida dei gabbiani. Ormai il fenomeno si manifesta da molti anni – chissà se il pescatore è ancora vivo e se il fischio non è registrato – ed è diventato un’attrazione per turisti, i quali vengono, comprano dei fischietti particolari per sollecitare il prigioniero, bevono, mangiano, dormono e fanno girare l’economia del luogo. È una parabola facilmente interpretabile, soprattutto nel contesto in cui Coltorti la mette in scena d’un teatro minacciato di prossima chiusura per il disinteresse della politica e del ministero dei Beni culturali che da un anno si chiama ministero della Cultura ma non per questo è migliorato. Il prigioniero è l’artista, in ispecie di teatro, la pena che prova per la lontananza dal mare è l’impossibilità di fare il suo mestiere, il grido dei gabbiani è ovviamente quello della libertà, i turisti con i fischietti in bocca sono gli italiani, il carcere è la politica.
Il testo è più forte e più efficace di qualsiasi violenza verbale all’indirizzo dei politici, della pubblica amministrazione e delle organizzazioni che dovrebbero interessarsi di quanto succede ai teatri, come l’Agis per esempio. Negli ultimi anni, i palcoscenici della capitale sono stati intensamente bombardati dai Putini del potere, molti sono stati chiusi, ossia metaforicamente rasi al suolo, altri sono sepolti sotto le macerie di promesse eternamente rimandate di restauro e riapertura, lo stabile capitolino è commissariato. Ogni teatro morto ha la sua storia di ipocrite ragioni e di menefreghismo del potere pubblico che l’hanno trasformato nella tomba sporca della politica escrementizia. Non c’è bisogno, come ogni tanto si sente invocare inutilmente in giro, di tribunali speciali per i crimini contro l’arte e la cultura e di frustate in piazza sulle schiene dei politici, è sufficiente andare a vedere Nel vuoto. Ed è proprio questa la ragione per la quale il potere ha paura del teatro ed è sempre impegnato a distruggerlo, grande o piccolo che sia: perché basta un niente, un bel testo e tre bravi attori per dare luce alle coscienze e mandare i politici all’inferno vuoto e oscuro della vergogna e del disonore.