“M il figlio del secolo”, uno spettacolo di Massimo Popolizio dal romanzo di Antonio Scurati. Con Massimo Popolizio e Tommaso Ragno. All’Argentina di Roma
A Roma lo chiamavano Giulietta
Lo spettacolo di Massimo Popolizio in scena all’Argentina di Roma, M il figlio del secolo, tratto dall’omonimo romanzo di Antonio Scurati vincitore dello Strega 2019, sembra chiedere allo spettatore l’esercizio dell’oggettività: lasciare al guardaroba l’opinione personale su quella banda di feroci pagliacci criminali che sono stati i fascisti con a capo Benito o, come lo chiamò Carlo Emilio Gadda nel suo Eros e Priapo, Kuce, sudicio Poffarbacco, lurido Poffarbacco, Somaro principe, Gran Somaro Nocchiero, Somaro Fava, Fava Unica, Fava Maramaldo, Predappiofava, Predappiofesso, Predappioasino, Predappioculo, culone a cavallo, Merda di cervellone eccetera, sanguinolento porcello, sanguinolenta jena, Gran Cacchio, ladro, gradasso, nanonzolo, capocamorra e via così, pupazzo, Nullapensante, Socero Schifoso, Appiccata Carogna.
Nulla di tutto ciò nello spettacolo, piuttosto la parola-chiave è “grottesco”, al quale si arriva con lo sguardo freddo e distaccato. L’allestimento si presenta come un kolossal teatrale di tre ore, con diciotto attori impegnatissimi in una folla di ruoli, una complessa macchina scenica e tecnica, scenografie di Marco Rossi, costumi d’epoca di Gianluca Sbicca e luci – anch’esse meritano di essere segnalate – di Luigi Biondi. Ed è formato da trentuno quadri. Le ragioni di tale suddivisione dovrebbero essere le seguenti: in questo modo la durata della rappresentazione sembra meno lunga; i singoli quadri sono per la regia relativamente più semplici da montare, meno gravosi per gli attori e per il pubblico più facili da capire e seguire. Vi è poi un altro vantaggio in questa costruzione, indicato da Lorenzo Pavolini, collaboratore di Popolizio alla drammaturgia, quando scrive nel programma di sala di “una sorta di cabaret espressionista nel quale ognuno dei fantasmi prodotti da queste distorsioni ha il proprio numero in scena”. Le distorsioni sono quelle della nostra memoria collettiva, i fantasmi invece gli esseri inumani che hanno portato il sangue altrui al campo fascista. Ognuno di loro passa nitido e preciso in queste successioni di scene, scenette e sketches, quasi numeri di varietà a volte. In certi momenti par di assistere veramente a un cabaret anni Venti berlinese macabro come l’umanità corrotta e malefica dei quadri di Grosz. Ma siccome si tratta di italiani, allora la barbarie si carica d’un tono di farsa, di avanspettacolo da cinema di provincia, e il mostruoso, il deforme insito nel grottesco diventa una pagliacciata. Un buffone nel corpo e nello spirito è il Gabriele D’Annunzio tonitruante dell’impresa di Fiume; un guitto Filippo Tommaso Marinetti, intellettuale da caserma di Voghera; un bambolotto assassino Cesare Balbo avido di mascelle e ossa rotte, bastonate, mazzate. Sono tutte macchiette, il comunista fascistizzato Nicola Bombacci, il cornuto conte Carminati Brambilla, la povera Ida Dalser che da Mussolini ebbe un figlio della mano sinistra, come si diceva degli illegittimi, e morì internata in manicomio. Una quantità di macchiette che però vengono apparentemente trattate dalla regia e dagli interpreti come personaggi, procedura che per paradosso ne esalta l’aspetto grottesco. Ma anche penoso: quando Margherita Sarfatti, l’amante di Mussolini, centrale nella vita del Duce e promotrice della sua ascesa, capisce di essere stata lasciata, si abbandona a un monologo rantolante di dolore e rancore. Ha 43 anni, la sua potenza, la sua ricchezza, il suo prestigio non contano nulla (scriverà nel ’55, a 72 anni, un libro di memorie dal titolo significativo, Acqua passata).
L’assenza nello spettacolo di un giudizio morale è il miglior giudizio possibile: basta esporli sulla scena, questi mostri, così come sono, come ce li consegnano la storia e il romanzo di Scurati, del quale la messinscena di Popolizio è una sintesi. La sintesi, questo procedimento conoscitivo che nei cervelli subumani dei nazisti si trasforma in un campo di concentramento e in quelli fascisti in un bordello per fallocrati guerrafondai e codardi, si usa giustamente qui contro i mussolinoidi, a sunto della loro goliardica spacconeria. Il ridicolo uccide, dicono i francesi, soprattutto il ridicolo sintetizza. “Cos’è il fascismo?”, E Mussolini risponde: “Una sintesi di tutte le affermazioni e negazioni”. Non significa niente, è una “gran correggia del nulla”, come ancora disse Gadda del “Sozzo Nostro”.
La regia sarebbe potuta cadere in un brechtismo pedagogico ma lo spettacolo scorre sopra un senso dell’ironia molto italiano di chi sa parlare di cose gravissime con leggerezza, persino con studiata superficialità (e di quisquilie con affettata gravità). Popolizio omaggia nel programma di sala il suo maestro scomparso nel 2015: “Quello che ho imparato da Luca Ronconi, perché era l’unico regista che lo sapeva fare, è la capacità di creare in palcoscenico un primo piano, un campo lungo, un campo medio, uno sfondo”. Vero, c’è del cinema in questo teatro, non solo per le proiezioni (utili esteticamente, non necessarie narrativamente), ma questo umorismo sottile, sotteso, è di Popolizio. Spuntano qua e là certi piccoli acuminati coltellini a tagliuzzare gli sbruffoncelli dell’attualità politica: “I fascisti sono un antipartito e fanno antipolitica”, dice all’inizio Benito non ancora duce. E quando, solo sul palcoscenico si staglia tronfio il Mussolini che il 3 gennaio 1925, deve difendersi alla Camera dei Deputati per il delitto Matteotti – “Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere!” – viene spontaneo rimemorare il 3 luglio 1992, ancora alla Camera. Bettino Craxi: “I partiti, specie quelli che contano su apparati grandi, medi o piccoli, giornali, attività propagandistiche, promozionali e associative, e con essi molte e varie strutture politiche operative, hanno ricorso e ricorrono all’uso di risorse aggiuntive in forma irregolare od illegale. Se gran parte di questa materia deve essere considerata materia puramente criminale, allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale”. Per Marx la storia si ripete sempre due volte, la prima come tragedia, la seconda come farsa, ma in Italia fin dalla prima volta è una farsa tragica. Matteotti (interpretato da Raffaele Esposito) è l’unica figura qui risparmiata nella sua dignità di persona e di personaggio.
Si potrebbe sostenere che questo spettacolo è metateatro, teatro nel teatro. Difatti Mussolini in scena è uno e bino: c’è il “Benito teatrante” interpretato dallo stesso Popolizio, un gagà con bombetta, bastone e ghette, un Gastone bellimbusto e un Nerone gradasso da macchietta petroliniana; e c’è il Mussolini biografico e storico dal 1919 ai primi giorni del 1925 restituito da Tommaso Ragno. Il doppio personaggio pare l’idea che regge tutta la messinscena, permette molti movimenti, cambi di ritmo, variazioni sceniche e interpretative, di modo che lo spettacolo non finisce mai in un vicolo cieco, in tutti i suoi quadri è risolto per il fatto che la regia può disporre sempre a propria convenienza d’uno dei due Benito. Si elimina così anche il rischio d’una svalutazione della rappresentazione a capitolo sulla nascita e le cause del fascismo d’un manuale di storia contemporanea per i licei. Allora lo spettacolo diventa un’opera che inscena un’operetta oscena, le vicende dell’Italia primi anni Venti, esattamente un secolo fa, e l’inizio di quel fascismo che Benedetto Croce indicò, con definizione ipocrita e infantilmente giustificatoria, come “una parentesi della storia italiana”. Oppure è stato “l’autobiografia di una nazione”, secondo la tesi di Piero Gobetti (il quale di teatro peraltro capiva ed era un bravo critico)? Ma Massimo Popolizio è un artista e i suoi giudizi sono nascosti sotto una visione che il pubblico può riconoscere a proprio piacere come un cabaret espressionista tedesco, un avanspettacolo all’italiana o una rappresentazione di Commedia dell’Arte in cui Cesare Balbo è un Capitan Spaventa, militare spaccone e pagliaccesco; D’Annunzio un Dottor Balanzone, vecchio saccente e pedante; la Sarfatti una Rosaura viziata e vanitosa. E Benito? Lui no, lui era shakespeariano. A Roma lo chiamavano Giulietta, perché stava sempre al balcone di Palazzo Venezia.